Le cose quando non le vedi, non le tocchi: scompare l’icona della retina, rimane il guscio sonoro, voci rumori umori frequenze. Un mixtape creaturale che è la realtà, ma non sai cos’è la realtà. Questa carota acustica è stata colta il 20 marzo 2025 in un centro commerciale di Firenze sud. Il santuario delle cose. Ascoltare, anzi: lasciare che sia il microfono del registratore ad ascoltare per te. Perché osservare non è soltanto vedere. Allora si oblitera lo sguardo. Si perde la memoria mentre l’orecchio destro – sulla banda giustificata a destra (in corsivo) – percepisce le voci e quello sinistro – sulla giustificazione a sinistra (in tondo) – coglie le variazioni di frequenza. Il mondo non è più il luogo dov’ero, dove avevo bisogno di essere. Lo avevo perduto.
Fondo cosmico di rumore: una radiazione che s’estende planare. Passi rintoccano. Un cane esplode: abbaia. Aritmia di passi, onnidirezionali. Poi: i passi scemano. La nota fissa galattica s’incava i passi scendono in una specie di dimensione cava, il suono rimbalza in un vuoto: è percezione concreta del cemento. Una schiodinata di spiccioli, scoppiettii, s’alza di volume la neutralità del bianco che pervade. Una tosse scoppia vicino al microfono. Colpi: come una paletta sulla sabbia, al mare. Sono tonfi che non hanno fine, è uno sbattere irrefutabile: lavori in corso forse.
Una risata argentina, un cinguettio acidulo, modula un crescendo che si fa largo – similitudine: come invisibili uccelli di specie a lui sconosciute si lanciano impulsi sonar dalle loro postazioni; complottano contro la razza umana con il loro intelligence squillante e mandarino. Due voci: parlano; un idioma speciale, sconosciuto all’orecchio che lo sorpassa, è dell’Est – DICE LA VOCE MENTALE, A POSTERIORI, LA VOCE DEL PREGIUDIZIO, DI QUELLA SLAVISTICA DILETTANTE CHE HA ABITUATO LE ORECCHIE E CHE SI AGGLUTINA, ROZZAMENTE, IN: COSE DELL’EST.
I passi sono sepolti, più oscuri, in profondità, stridio di ferro su ferro, tosse, scoppi di tosse, a ripetizione. I botti di strumenti per un lavoro pacifico forse, domenicale. Pulsano, i tacchi si conficcano nel linoleum; trenodia di altri rumori, qualunque cosa prima stesse battendo adesso sta camminando; risate di donne. Si attraversa una zona che è soltanto rumore, è satura di indecidibilità.
«Questo stesso, stavi, stedi [?]». Il mozzicone di parole rimane sospesa, inintelligibile, esposto al fraintendimento. «[INDISTINGUIBILE]»; voci isolate dagli altoparlanti, una melodia pop (COS’È POP IN UNA MELODIA? È IL POP DI OGGI). E dunque: tremula una voce africana, una nenia subsahariana, appare anche una batteria sintetica, a un livello sotterraneo, è sotto. Questa voce si lamenta, negli altoparlanti, di là dai vetri automatici e dai sistemi antitaccheggio del lotto commerciale dentro il centro commerciale. Il suono non può ricordare il brand, ma l’occhio di chi ascolta sì, perché lo conosce da anni. «[VOCI AFRICANE, PAROLE IMPRENDIBILI, NON C’È UN LESSICO DI RIFERIMENTO]».
Tutto viene dappertutto, i rumori collidono, crescono nell’unica nota del sitar urbano. La vibrazione universale cresce d’intensità.
La querela della voce pop insiste. È un pop scarnificato, l’unico vero genere popolare che può esistere ora, qui, una melodia insignificante con al centro una voce terribile, spettrale, un sound terrestre d’incommensurabile dispersione.
Bau. Più un uuuuh. Forse semplicemente: woof. «Ho capito che t’amavo». Versi. La bestia, la bestia d’amore.
Il rombo esclusivo eccede, sale, avanza nella colonna verticale, s’innestano altri clangori, ma sembra la partenza del Boeing sulla pista.
«Qui la Coop», «[INDISTINGUIBILE]», la canzone che non finisce mai, «Baaan», sembra dire. [INDISTINGUIBILE]. La straziante ermafroditica melodia che tracima il dolore: il guscio inesistente della musica, non c’è linea, non c’è musica, neanche armonia, è ritmo. Puro. Slabbrato, nel pomeriggio caldo. Questi rintocchi di voci per canzoni: l’effetto Doppler che intercetta il destino dell’ascoltatore; lo sorprende con il jumpscare della presenza, infine lo molla: chi ascolta non può essere più lo stesso.
«Non dir, non diciamolo [?]», «Scatter, on the green now…»
«[INDISTINGUIBILE AFRICANO, OPPURE ANCORA LA COSA DELL’EST]»
«In your heart».
Poi ho visto il volto sereno dei lavoratori Coop. I turni regolari, che fanno da metronomo della solitudine. Le cose sono ricomparse, quindi. Sono ordinate, in una disperazione cartesiana che compone il luteranesimo dei Mall. Le cose servono: a costruire, ricostruire. Riportare ciò che manca al proprio posto: riconquistare tutto quello ch’era andato perduto in un’inondazione qualunque.
Filippo Polenchi è nato e vive a Firenze, dove fa l’insegnante di Lettere. Ha scritto e scrive su riviste culturali. Descrive, osserva. Suoi articoli sono apparsi su «Alfabeta2», «Antinomie», «L’indice dei libri del mese», «La balena bianca». Suoi racconti sono apparsi su «Nazione indiana», «minima&moralia». Il suo primo romanzo Figlio fortunato è uscito per 66thand2nd nel 2021 e il suo secondo libro è stato pubblicato dalla casa editrice Industria e Letteratura nel 2022, nella collana «L’invisibile», con il titolo: La casa in fiamme. Con il romanzo inedito Vesta si è classificato secondo nella XII edizione del premio Zeno (gennaio 2025).
L’illustrazione è di Ermanno Funari.
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