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Discendere, distruggere. Su “Una possibilità del linguaggio” di Alfredo Zucchi

Dove si trova e dove conduce la letteratura? Una possibilità del linguaggio di Alfredo Zucchi (Mucchi Editore, 2021) è una raccolta di brevi saggi che ragionano sul concetto di «limite» applicato alla letteratura, inteso come “zona” in cui sono possibili allo stesso tempo «un’estrema prossimità» e «una distanza incolmabile». Attraverso, soprattutto, Borges, Bolaño, Foucault e Kiš – ma anche la fisica quantistica e Twin Peaks – Zucchi affonda nei cortocircuiti della scrittura e della metascrittura.

Il sistema e l’errore

Tra i cinque capitoli che compongono questo libro, il primo è senza dubbio il più interessante – per programmaticità e visione. Parlare di programmaticità in relazione a questo libro, tuttavia, appare abbastanza difficile: i saggi non rispettano tanto il rigore del trattato, bensì oscillano costantemente tra la costruzione della teoria e l’accettazione dell’errore. È lo stesso autore, d’altronde, ad avvisarci, quando nella Premessa scrive che il libro «modula toni gravi e speculativi con quelli satireschi». Siamo dunque di fronte a un libro che – ad esempio – parla di Borges (il sottotitolo è Pierre Menard come metodo, tra l’altro), ma, contemporaneamente, ne eredita anche il modus di saggistica che finge, o di finzione che specula, e insomma il gioco intellettuale che discute della sovrapposizione tra vita, scrittura e metascrittura, e al contempo, inevitabilmente, la attua. Le pagine finali, che vanno sotto il titolo di Specchio riflesso, sono il vertice di questo approccio: si parla di Menard, di una sua lettera mai inviata a Borges, lo si “enigmizza” anche al di fuori – ma quale fuori? – del famoso racconto.

Ecco, Menard, appunto. Il primo saggio che incontriamo – e che, tra l’altro, dà il titolo al libro – si arma delle tecniche della filologia («seguiremo la traccia delle fonti») e dell’epistemologia («una scienza delle condizioni del contenuto», riprendendo Barthes), interroga la relazione tra linguaggio e follia e infine prende il caso Menard come emblema del «processo di sdoppiamento». Dal Foucault di Storia della follia nell’età classica, Zucchi ottiene infatti l’idea di «linguaggio escluso», che sarebbe, anche, quello delle «parole che si avvolgono su se stesse». Il caso del Menard di Borges, in quanto tecnica «dell’anacronismo deliberato e dell’attribuzione erronea», rappresenta dunque non solo l’assunzione a tema narrativo dello sdoppiamento del linguaggio, ma anche l’innesco di una «prospettiva politica» (ci torno più avanti) a proposito della “proprietà” del senso, di destabilizzazione dell’Uno e, potremmo dire, di alterazione della gerarchia tra normale e patologico.

Il vuoto, il laboratorio, la Loggia

Prima vediamo, però, dove conduce lo sdoppiamento. Nel libro si esplorano in particolare tre luoghi, connessi fra loro: il «laboratorio centrale», la Loggia Nera di Twin Peaks e un “luogo” tutto particolare come il «vuoto». Ciò che unisce questi spazi è proprio la loro natura di «limite», che Zucchi pone in apertura come spazio dell’ambiguità insanabile del reale.

La Loggia Nera, ad esempio, è fattualmente – nella narrazione della celebre serie di Lynch – uno spazio in cui il tempo è «reversibile, illusorio, manipolabile», e cioè uno spazio collocato nel punto di fuga della nozione di storia. Tale caratteristica della Loggia come luogo (o forse nonluogo, ricordando Augé, in quanto luogo-aldilà-dei-luoghi), cioè la sua marginalità estrema, la ritroviamo poi negli altri due spazi; possiamo anzi pensare all’applicazione del concetto di limite su tre livelli: narrativo (Loggia Nera), metanarrativo («laboratorio centrale»), reale (il vuoto).

Con «laboratorio centrale» – immagine ripresa da Cortázar – Zucchi si riferisce infatti a «una dimensione in cui non solo il linguaggio implica se stesso, ma ogni elemento – spaziale, temporale – è legato all’altro in una relazione di autoimplicazione» e dove, cioè, «persino lo spazio e il tempo sono linguaggio». La «letteratura che implica se stessa», insomma, è in grado di condurre in questa zona che non è “semplicemente” l’estremità del pensiero, ma addirittura una zona in cui pensiero e linguaggio si rivolgono e mettono in discussione: «Il gioco del testo che si sdoppia e fugge verso l’infinitesimale mette in questione la realtà del soggetto che lo esperisce».

Parallelamente, «il vuoto» porta il medesimo scacco a un livello materiale (nel senso: dentro la materia). Anzi, il capitolo di riflessione sulla gravitazione quantistica a loop (Il vuoto. Un reportage) occupa nell’economia del libro proprio il ruolo di connettore tra finzione e realtà, dal momento che afferma che «Il carattere discreto granulare dello spazio fa emergere una forza repulsiva: tra un pacchetto e l’altro di spazio, parte dell’energia si disperde, la densità non è più infinita – l’universo è salvo e può esistere daccapo», e permette cioè al lettore di cogliere equivalenze logiche e meccaniche – la reversibilità, il loop, l’evaporazione di ciò che comunemente intendiamo come spazio e tempo – tra l’universo-materia e l’universo-libro.

Il presunto fuori

Vista la centralità che la metatestualità acquista nel libro di Zucchi, e visto anche il sottile intreccio che si genera tra parola e realtà, arriviamo dunque all’aspetto forse più intrigante del libro (come “problema”, anche); ovvero il modo in cui questa visione “implosiva” della letteratura viene a interagire con la materialità del mondo.

Considerato in base alla sua direzione, il movimento di discesa nel «laboratorio centrale» è di fatto un’introiezione, il tragitto tramite cui il testo conduce eternamente all’interno del testo e fa impelagare il lettore in un vischio di doppiezze da cui pare impossibile uscire. Eppure, come accennavo, Zucchi non esclude la possibilità che questo loop intratestuale apra una «prospettiva politica». E infatti scrive: «la letteratura che implica se stessa […] nei suoi meccanismi interni, non produce innocui esercizi di stile: essa al contrario mette in gioco i modi di appropriazione e i processi di attribuzione e significazione; essa segretamente chiede: “di chi è il senso? –, si tratta, alla lettera di una prospettiva politica».

Se sommiamo questa considerazione con quelle a proposito della meccanica quantistica (nonché a quelle filologiche su «un’ambigua attribuzione» a Bolaño proposte nel penultimo saggio), capiamo allora perché si può parlare di «metodo» (che vale applicazione, pratica e scienza assieme) e riconosciamo il luogo che Zucchi cerca di indicarci. Che non è né fuori né dentro il testo, bensì nella «voragine» in cui si mettono in discussione le condizioni di possibilità e del testo e del reale come ci appare. Al lettore, insomma, è chiesto di guardare alla metaletteratura in modo trasversale: non uno specchiarsi tautologico, ma – attraverso questo, attraverso la narrazione – un immettere nel reale il congegno che smaschera la presunta unità del mondo.

Antonio Francesco Perozzi

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