Categorie: Letteratura

Mondo parlato. Su “Un semplicissimo universo inespanso” di Michele Fianco

L’operazione che Michele Fianco compie in Un semplicissimo universo inespanso (Nino Aragno Editore, 2019) non è semplicemente quella di antologizzare i momenti migliori della sua carriera poetica, ma soprattutto quella di risignificarli in vista di una nuova macrostruttura, solida e riconoscibile.

Con i titoli delle sezioni che tracciano un arco temporale amplissimo, una vicenda cosmologica – da Miliardi di anni fa… a Futuro remoto…, passando per Il Sapiens… – Fianco monta un film in cui biobibliografia e cosmo tendono a coincidere, ma allo stesso tempo svelano la paradossalità di tale coincidenza, per via di un costante, velato (ma efficace) micro-sconquassamento del linguaggio.

Il jazz e l’arte del poliptoto

Prima di leggere l’Universo inespanso in ottica macro-testuale, conviene soffermarsi sugli aspetti stilistici che possono dirsi comuni all’opera fianchiana (o quantomeno ai testi qui inseriti); aspetti stilistici che, come si accennava e come spiegherò meglio più avanti, plasmano il significato stesso del libro, producono quello scarto tra io e mondo che permette di non far evolvere il macrotesto a macrosistema etico-epico, e di mostrarne perciò gli inciampi, le frizioni che sono – almeno secondo chi scrive – il valore del libro.

Da un punto di vista stilistico, dunque, potremmo definire quella dell’autore l’arte del poliptoto e della paronomasia. È certamente importante fare riferimento – come spesso si fa, parlando di Fianco – al mondo del jazz, da lui frequentato assiduamente: le sue poesie riflettono nel ritmo, nella rilevanza date alle pause e agli stacchi, l’andamento caratteristico del jazz, quello costruito, cioè – limitiamoci qui allo “standard”, lasciando da parte le varie declinazioni del genere – fondamentalmente sulla sincope. Il ritmo caratteristico della scrittura fianchiana è perciò quello scandito dall’uso ricchissimo dell’asindeto, dai riavvolgimenti e dalle sospensioni della sintassi favorite anche dalle allocuzioni, oppure dal tono rimuginante: «Le oggettivamente belle, / di cose, esistono. / Ma non questo era il caso. / Anche se, sì, ragiono / nei termini di te, ancora, quando…».

L’armonia fonica – assonanze, omoteleuti, rime – è ottenuta, perciò, secondo schemi dispari, più vicini all’improvvisazione (imprevedibilità) del jazz, che alle strutture poetiche classiche (e su questo anche Laura Pungo, nella quarta: «ritmo […] inevitabilmente jazzistico, sempre improvvisato, sempre disposto a impreviste mute»); ma comunque uno schema, un’architettura è presente – così come è presente al musicista, che, per quanto s’involi, sa di avere (e di dover rispettare) almeno due impalcature di riferimento: la tonalità e il tempo. Ecco allora che, quanto all’esempio appena riportato, le assonanze «caso»/«quando», nonché la rima che «ragiono» fa col successivo «sragiono», sono supportate da un gioco d’accenti («se», «te») indissolubilmente intrecciato alla sintassi (regolata dagli asindeti, dagli incisi, dalle inversioni).

In un impianto di questo tipo, grande valenza hanno perciò le paronomasie, i poliptoti e le figure di ripetizione: lo vediamo – due esempi per tutti – nello stress coniugazionale cui è sottoposto il verbo “fare” in faccio tutto! («faccio», «facci», «fatto», «falla», «facendo», «farei»), nell’attacco di viale mondo («viale mondo, centrale viale / dove la via, via via, sale»). Si tratta dunque, per quanto detto, di strumenti eccellenti di gestione del ritmo – che è franto e asimmetrico – e anche, come diremo, di segnali di un linguaggio che si riavvolge, che straborda rispetto alla materia e non riesce perciò a farsi sistema.

Flatus vocis

L’armonia estetica dell’Universo di Fianco è data quindi da strutture eterodosse, da sincopi, nonché da un’agitazione sottile cui è sottoposta la parola, condotta a riprodursi in forme molteplici e a ripensarsi continuamente. In Fianco il linguaggio – questo è, a mio avviso, il punto nevralgico – eccede la materia, va a coprire spazi che gli atomi non occupano, dunque – più esattamente – li inventa, costruisce in un raggio d’azione che è del linguaggio stesso e non della realtà sensibile. Come scrive Gualberto Alvino, «la poesia di Michele Fianco […] non dice, non rappresenta né tantomeno trasfigura in canto dati immediatamente sensibili: verbalizza in emblemi ora tersi e persino affabili»[1].

Ed elemento costante, nel libro, è infatti il dialogo, o diremmo – pensando anche ad Heidegger – la chiacchiera: fin dall’incipit della prima poesia («e tu mi dici, io ti dico»), e poi in molte altre occasioni di pluralità di voci, o di allocuzioni, il parlato si mostra in Fianco come natura, effettiva dimensione in cui si articola l’esserci dell’io, in forza, anche, degli scenari – quotidiani, cittadini – in cui l’autore ambienta le sue storie (significativi, in primis, il bar e la radio, due luoghi tipicamente immersi nell’oralità, e in un’oralità strabordante, soprattutto).

La chiacchiera, il flatus vocis sono allora qui segnali di un linguaggio che non può dire l’universo se non in maniera imprecisa, ridondante, di un linguaggio che ha il compito virtualmente infinito di esaurire i vuoti che esso stesso – in virtù della resistenza granitica della materia, della sua “inespansione” – è costretto a generare. Sta lì, da un punto di vista concettuale, il ruolo della sincope jazzistica e dei poliptoti.

Fianco Cinematic Universe

Tirando le somme, dunque, il Semplicissimo universo inespanso si presenta, sì, come antologia, per essenza, ma poi anche, ontologicamente e poeticamente, come costruzione nuova, significante, che esiste in virtù del gioco sottile tra selezione degli exempla e individuazione di una storia che li colleghi, che sia in grado di intelligere la ratio alla base dell’intera produzione fianchiana.

Interrogato sincronicamente, l’universo messo in scena dall’autore è quello di una quotidianità colta dal punto di vista di chi la esperisce e raccontata attraverso, come si diceva, un linguaggio slabbrato, eccedente le cose. Ma già Francesco Muzzioli, in una sua recensione[2], dichiarava «lacunoso» l’io di questi testi, lo valutava «valenza allegorica» di una condizione collettiva, «generazionale». Il fatto è che occorre interrogare l’Universo diacronicamente, quindi, macrotestualmente (che è lo stesso, dato l’impianto “evoluzionistico” della raccolta): dai Miliardi di anni fa… alpresente, il cameraman (anche il cinema è molto presente in Fianco) segue un carrello e stringe sull’uomo, sulla Società, dunque su L’autore stesso; costante – al netto del passaggio alla prosa, delle evoluzioni mediatiche (L’età delle narrazioni…, I grandi mezzi di comunicazione) – un linguaggio che si manifesta nella propria dismisura in confronto al materico.

L’“inespansione” dell’Universo si percepisce perciò nella sostanza spessa e immutabile che persiste dietro l’espansione del linguaggio, nonché dietro la propria superficiale mutevolezza; in un io che non sa uscire realmente dai confini della propria autocoscienza («Ho più biografia io / di un pianeta») ma esattamente in questo si svela – con Muzzioli – allegoria di uno stadio dell’uomo (ecco l’approdo finale dell’inespansione; e l’ultima sezione è infatti L’autore) in cui il linguaggio è, di per sé, un problema.  

Antonio Francesco Perozzi


[1] https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/recensioni/recensione_159.html

[2] https://francescomuzzioli.com/2019/09/29/michele-fianco-un-semplicissimo-universo-inespanso/

Antonio Francesco Perozzi

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