Il Dio D.O.C – Sarah Majocchi

Un pube riccioluto cresce oltre la veste candida dell’aglio. Lo taglia in spicchi velati una luce, di sbieco ne ingabbia le vesti.
Fino a ieri viveva sottoterra. Fingeva di svegliarsi la mattina presto, si pettinava le lunghe chiome verdi e si riaddormentava. Poi venne la mano e lo colse di sorpresa. Lo strappò dalla terra, lo ripulì e lo intrecciò con destrezza a decine di altri.

La contadina aveva dita spesse e callose, incideva la polpa con le unghie a scalpello, e le falangi si tingevano di giallo, il succo penetrava sotto le cuticole, risalendo il derma, nutrendone l’intero corpo. Il marito le disse che da morta avrebbe potuto piantarla come un seme, coltivarne cento, come lei.
Ma la donna non lo ascoltava. Ogni mattina aveva una consegna, tra i campi e l’orto, tra le mura domestiche e i sogni della notte.
Ogni mattina il gallo cantava, strozzato dall’età e dalle intemperie. La contadina scioglieva il corpo dalle lenzuola e poggiava a terra i piedi violacei, come la tunica dell’aglio viola di Cadours. L’aglio francese è più precoce degli altri; così, anche la donna era incanutita in fretta e ben arrotondata sui fianchi. Il marito le ripeteva che da morta avrebbe potuto piantarla come un seme, coltivarne cento, come lei.

Facevano parte di una comunità, la donna, il marito e l’aglio. Crescevano sulle pendici di colline calcaree, con un tasso minimo di argilla del 20%. Le parcelle erano esposte a sud, e il maggio piovoso ne favoriva la crescita, irrorando i campi e i tetti delle loro case. Mio marito è grande e grosso, pensava la donna, e da morto avrebbe potuto piantarlo come un seme, coltivarne cento, come lui.

Controllò che i bulbi fossero ben formati, che le vesti fossero striate di viola. Al mercato era una varietà molto richiesta, e ogni stagione ne vendeva più di quanti riuscissero a coltivarne.
Potrebbero essere i miei figli, diceva l’uomo, mille figli per lavorare la terra, ripeteva nel sonno. E la contadina teneva stretto il guanciale di piume d’oca, dopo averne svestita una l’anno precedente.
Potrebbero essere i mei figli, sognava lei, potrei scolpirne le polpe come faccio con l’aglio. Sono addestrata da anni di pratica e le mie mani odorano già dei loro corpi.

Ogni mattina il gallo cantava, strozzato dall’età e dalle intemperie, e la donna calzava sempre le stesse scarpe logore e le sue mani vizze coglievano le teste più mature, le dividevano in pacchetti, le appendevano alle travi dei fienili per l’essiccatura.
Il vento d’Autan le asciugava, mentre la contadina usciva dalla vasca e strofinava i pochi capelli con un vecchio canovaccio. Il marito era quasi calvo, come una testa d’aglio appena sbucciata. Ogni giorno la donna trova un suo capello sul cuscino; li conserva da quarant’anni come reliquia, nascosta sul fondo di un cassetto. Potrebbero essere i miei figli, pensa, mentre tesse una pezza e il marito si veste e si sveste, ogni giorno gli stessi abiti consunti, lo stesso campo di aglio da rivoltare.

Per preservare la qualità dei bulbi, occorre evitare gli urti. E così, donna e marito non si toccano più da anni. La sera, si dispongono su un materasso di lana e intrecciano le braccia al petto. L’intrecciatura consente di ottenere una certa rigidità. Chiudono gli occhi, le teste sui cuscini, le radici avvolte in lenzuola di cotone grezzo.

Ogni mattina, la confezione va curata nei minimi dettagli: la donna si veste in cucina e si sveste di sé stessa nel fienile. L’uomo resta solo, dimenticato nei campi. Nulla più conoscono l’uno dell’altro, nemmeno le proprie voci: non c’è nessuno con cui parlare a parte Dio, ma il Dio dell’aglio è cieco e sordo e l’odore del suo corpo lo nausea. Talvolta, li stuzzica per divertirsi. Potreste essere i miei figli, dice loro. Da morti, potrei piantarvi come semi, coltivarne cento, come voi.

Ormai, contadina e marito conoscono il loro destino, lo stesso fortore delle trecce appese a dondolare nel fienile. Ma il sindacato dell’aglio, in combutta con Dio, ha stabilito una procedura per ottenere l’etichetta D.O.C. Non potete fermarvi ora, ripetono insieme, vogliamo coltivarne cento, come voi.

Ogni mattina il gallo canta, strozzato dall’età e dalle intemperie. La contadina scioglie il corpo dalle lenzuola, si veste in cucina e si sveste di sé stessa nel fienile, controlla che le cuticole delle sue dita callose siano striate di viola, le asporta con la punta di un coltello. Potreste essere le mie figlie, dice loro. Il marito le ripete che da morta potrebbe piantarla come un seme.

Per coltivarne cento? Chiede la donna.


Sarah Majocchi è nata a Milano. Finalista al Premio Walter Mauro 2023 sezione racconti; o scrive o legge oppure dorme.

Serena Nadal

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