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“Mattino e sera” di Jon Fosse, il travolgente impeto di un’onda piatta

Jon Fosse ha vinto il Nobel per la Letteratura 2023 “per le opere teatrali e i romanzi innovativi che hanno dato voce all’indicibile”; è considerato l’erede di Beckett e Ibsen nonché – a detta del New York Times – uno dei più grandi scrittori al mondo. D’altra parte un Nobel per la Letteratura non si vince tutti i giorni, ma che cos’ha l’opera di Fosse che dà davvero voce all’indicibile?

Rispondere a questo interrogativo è operazione assai complessa, eppure, leggendo Mattino e sera (La Nave di Teseo, 2019 – trad. Margherita Podestà Heir) ci si accorge fin dalle prime battute di trovarsi di fronte ad una immensa assurdità in cui davvero sembra aver voce ciò che risulta difficile da esprimere.

Innanzitutto, ciò che salta subito all’occhio è la forma: questo romanzo non ha punti, no… nessun punto, nessuna sospensione del racconto. Un delirante flusso di coscienza in cui soltanto i capoversi rompono il ritmo lento e martellante della narrazione. Verrebbe da domandarsi se ha ancora senso, nei giorni nostri, scrivere un romanzo senza nessun punto, solo virgole e interrogativi; Joyce, Saramago, Faulkner etc. ci sono stati e ci sono ancora, ma il modernismo oggigiorno si manifesta molto più sul piano del contenuto che su quello della forma. Eppure l’operazione che compie Fosse non è espressione della «falsa rivoluzione», quella che si definisce il «conformismo degli anticonformisti»[1]. Fosse non ha bisogno di mostrarsi come espressione del modernismo, non ha bisogno di stupire lettori e critica con una prosa ermetica e metonimica.

In Mattino e sera la scelta stilistica è strettamente collegata alle dinamiche interne della narrazione, la prosa di Fosse è come il mare. La storia narrata è apparentemente semplice: in un tempo non specificato, nasce Johannes. Buio. Johannes invecchia. Johannes muore. Il salto temporale è l’esistenza intera del protagonista. Fosse non ci parla della famiglia, della sua infanzia, delle amicizie, degli amori perché non è necessario, Johannes ha vissuto e questo basta[2]. Tutta la sua esistenza è raccontata senza essere esposta, è lì, tra le righe: c’è la moglie Erna, il suo migliore amico Peter, la signora Pattersen, i suoi sette figli (di cui viene citata solo Signe, la più piccola) e altri piccoli accenni a persone, luoghi e ricordi.

Tutto il romanzo non è altro che un viaggio introspettivo nei dettagli più intimi e insignificanti di un vecchio pescatore giunto al termine della sua esistenza. Mattino e sera appunto, la venuta al mondo e la dipartita; ciò che accade nel mezzo è secondario, non è altro che un’esistenza come le altre, ogni vita è unica ma ogni vita si somiglia.

La prosa di Fosse è un’onda piatta di una lentezza fulminante: sembra di vederlo il mare (vero protagonista dell’opera) che viene e va sul bagnasciuga, con un tempo definito e con impeto mai uguale, il moto della marea è la rappresentazione oscillante della vita di Johannes. Una parabola esistenziale che contiene l’inquietudine de La nausea di Sartre e la patina distaccata e metafisica de Il vecchio e il mare di Hemingway.

Ambientato nei pressi di Vågen, in una Norvegia remota e distante dove tutto «era come sempre, sì, ma al tempo stesso tutto sembrava diverso»[3], Johannes vive in una situazione di perenne stupore. In tutta la narrazione ogni oggetto, paesaggio e sentimento è avvolto da questa doppia patina, in cui la quotidianità sembra essere caratterizzata dalla solita monotonia eppure ha in sé qualcosa che la mostra sotto una forma e luce diverse. Johannes lo avverte nel peso, nel proprio e in quello degli oggetti: si sveglia e si sente leggerissimo, ogni attrezzo del suo capanno però è pesante «per via del lavoro che è stato compiuto con esso e allo stesso tempo così leggero, così incomprensibilmente leggero»[4]. Ecco ancora la marea, che si mostra e si ritira, leggera e pesante, così com’è sempre stata eppure così diversa; ecco allora Johannes, così come è sempre stato… eppure diverso.

Fosse racconta, con linguaggio introspettivo, il particolare che si mostra universale; mostra l’esistenza umana sotto la sua incomprensibile forma alla quale non cerca di dare spiegazione perché non ha senso cercare di spiegare una vita: nasci e poi muori, né più né meno. Lo fa con maestria, ma ciò si coglie solo nelle ultime battute: per tutta la narrazione il romanzo non è che una matrioska di cristallo in cui tutto è dove deve essere e nulla è al suo posto. Mattino e sera ci mostra – attraverso una lettura non particolarmente scorrevole e accessibile – la complessità dell’esistenza attraverso la semplicità e la gratuità della vita. Un’esistenza può essere riempita di contenuti, ricordi e azioni, ma non ha un obiettivo particolare se non quello di concludere il suo ciclo. Come il giorno che diventa sera, come la marea che si ritira, tutto ciò che inizia deve finire, stop.

Fosse rivela  questa eterna certezza con pacatezza e leggerezza, con un’istantanea folgorante che coglie le intimità più velate dell’esistenza umana attraverso una semplice storia di un semplice pescatore che un giorno nasce e dopo molti anni muore.

Giammarco Rossi


[1] C. Cassola, Il romanzo moderno, Rizzoli, Bologna, 1981, p.196.

[2] Qui verrebbe il paragone con Beckett e con la sua Trilogia.

[3] Jon Fosse, Mattino e sera, La Nave di Teseo, Torino, 2019, p.60.

[4] Ivi, p. 47.

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Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

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