Gomorra – La serie, fino a che punto è lecito indignarsi

C’è una scena, in uno dei primi episodi de I Soprano, in cui alcuni personaggi discutono sulla fama degli italoamericani nel mondo. Sono gli italoamericani mafiosi a infangare l’immagine di tutti gli altri, sostiene qualcuno. Eppure i film di Martin Scorsese sono apprezzati in tutto il mondo, dice qualcun altro. Chi abbia apprezzato lo humour della situazione, avrà forse capito che in quel momento la serie stava scherzosamente prendendo le distanze da sé stessa. Guai a confondere finzione e realtà, anche quando tra la prima e la seconda pare non ci sia alcuna differenza.

Due anni fa andava in onda per la prima volta, in Italia, la serie tv di produzione nostrana più discussa e seguita di sempre dal popolo del belpaese, Gomorra, ed è stato subito un caso. Puntata dopo puntata, si è tirata addosso una carovana di polemiche più o meno serie, molto arrabbiate, specialmente indignate, e con la fine della seconda stagione le critiche non hanno fatto altro che inasprirsi. L’attore Fabio De Caro, alias Malammore, è stato il bersaglio di numerosi insulti, sui social, da parte di chi non l’ha affatto gradito come protagonista di uno degli omicidi più difficili da digerire in tutta la serie. Il solito problema di chi non sa distinguere la fiction dalla realtà, dicevamo prima. Non che la cosa sia una novità, d’altronde: prima ancora che il suo libro diventasse un prodotto per il cinema e la televisione, vi è mai capitato di sentir dire che Roberto Saviano sì, per carità, non è che non dovesse farlo, però poi basta parlare sempre di mafia e delinquenza che ci fa una brutta pubblicità? C’è tutta una classe dirigente che avrebbe preferito che avesse lavato i panni sporchi in famiglia, anziché esporli alla pubblica conoscenza del mondo intero.

Se siete napoletani, allora certamente avrete sentito dire da qualche amico, familiare o conoscente che la serie ci ha fatto fare una brutta figura su, al nord, dove adesso chissà cosa penseranno di noi che viviamo nel ridente Mezzogiorno, dove si mangia la pizza e si prende il sole tutto l’anno. Sono critiche che non tengono conto del fatto che Gomorra non consente a nessuno di storcere il naso, dopo aver mostrato le infiltrazioni camorristiche anche a Milano. Sono paranoie che non prendono in considerazione la gravità dei gesti e delle musiche della colonna sonora, quelle di chi grida che le immagini incitano i giovani a seguire le orme della malavita organizzata. La stessa malavita i cui nomi di spicco vengono ridimensionati ed esposti al pubblico ludibrio, come quando Scianel s’improvvisa cantante con un microfono di dubbio gusto. La stessa criminalità che fa sì che si macchia le mani di sangue non riesca più a lavarsele. Chi è tra Pietro Savastano, Ciro Di Marzio, Donna Imma, O’ Track e tutti gli altri che non abbia visto tutto il male commesso ritornargli indietro come un boomerang?

Semmai, avremmo dovuto cominciare a indignarci molti anni fa, quando al cinema arrivarono tutte quelle rappresentazioni del gangster all’americana che si sono fissate nell’immaginario collettivo. Suppongo, però, che a nessuno importi niente se nostro fratello ha il tema de Il padrino come suoneria del cellulare, o se il nostro migliore amico si fa tatuare l’Al Pacino di Scarface sul braccio. Diciamoci la verità, Gomorra ci infastidisce perché ci tocca da vicino. Se fosse stato ambientato negli USA, in Giappone o in Brasile, non ci saremmo dati tanto disturbo per discuterne (e magari non ci saremmo nemmeno appassionati, ma questo è un altro discorso).

Il punto, forse, è ancora un altro, e cioè che Gomorra è qualcosa a cui non siamo abituati. I criminali del grande schermo a cui ci siamo affezionati col tempo non sono come quelli del telefilm di Sky. Ci piace pensare che quelli fossero uomini con dei valori, legati alla famiglia, rispettosi degli amici, innamorati della dignità. Francis Ford Coppola, Brian De Palma, Scorsese ci hanno regalato negli anni delle rappresentazioni non dico edulcorate, ma che mostravano entrambi i lati della medaglia. Qualcosa per cui potessimo anche tifare per i loro personaggi. In Gomorra sono tutti marci. La serie è la dimostrazione di come realtà e finzione possano sovrapporsi fino a confonderci, perché tutto quello che si vede potrebbe accadere, se non è già accaduto. Non c’è possibilità di identificazione, niente che ci induca ad ammirare quello stile di vita. Soprattutto, manca la totale volontà degli sceneggiatori di indorarci la pillola.

Chi abbia avuto un moto di sdegno per l’eccesso di crudeltà, di volgarità, di immoralità – in altre parole, per tutta questa realtà – forse non ha pensato che non sarà una serie tv a rovinare l’immagine del meridione. Non sono i ragazzi che scorrazzano sui motorini impugnando una finta pistola davanti alle telecamere, sono quelli che muoiono ogni giorno nelle nostre strade, per davvero.

Non è detto che sia un male che i protagonisti di Gomorra non abbiano niente a che vedere con quelli de I Soprano o di Boardwalk Empire, che tra i personaggi non ci siano poliziotti o attivisti anti-camorra, ma solo mezzi uomini spaventati, ipocriti, e profondamente inumani. Così vediamo chiaramente che nel mondo della camorra non esiste alcuna sfumatura di bene.

Andrea Vitale

Andrea Vitale

Andrea Vitale nasce a Napoli nel 1990. Frequenta il liceo classico A. Genovesi, e nel 2016 si laurea in Filologia moderna alla Federico II. Ama la musica e la nobile arte dei telefilm, ma il cinema è la sua vera passione. Qualunque cosa verrà in futuro, spera ci sia un film di mezzo. Magari, in giro per il mondo. Attualmente frequenta un Master in Cinema e Televisione.

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