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Balzac e la Piccola Sarta cinese: il proibito alla luce dei fiammiferi

In un pomeriggio d’autunno, nella cucina di casa vostra c’è un uomo venuto da lontano, col sorriso di un bambino saggio. Quell’uomo vi sta raccontando la sua storia.

Lo scrittore e regista cinese Dai Sijie

Un lungo racconto diretto alle orecchie del lettore: questo è Balzac e la Piccola Sarta cinese, Dai Sijie. Anno 2000. Non c’è carta o penna tra voi e un vecchio cinese che racconta la sua adolescenza; non ci sono i confini sciocchi di Oriente e Occidente; non ci sono i confini necessari tra invenzione e realtà. Nulla importa: c’è solo un uomo, l’ambiente caldo e familiare della vostra cucina, e le vostre orecchie. Accomodatevi.

1971. Siamo in Sichuan, una provincia cinese “popolata da cento milioni di abitanti, lontana da Pechino ma vicinissima al Tibet”. Cosa c’è a Pechino? Mao. Cosa c’è in Sichuan? Il suo nome vuol dire “Quattro fiumi”. Ci sono quattro fiumi, valli, montagne e fango. Bufali e risaie. Contadini.

In Sichuan c’è la Montagna della Fenice del Cielo, e sulla montagna della Fenice del Cielo, dove piove “due giorni su tre”, sono appena arrivati due ragazzi di città. Uno si chiama Luo. L’altro ce l’avete davanti, seduto sulla vostra sedia in cucina; non importa il suo nome. È l’uomo dal sorriso di bambino, e la sua storia inizia qui.

È scoppiata la rivoluzione culturale, in Cina, da tre anni. Epurazione; rieducazione. I giovani intellettuali borghesi di città sono costretti a partire, a lasciare le loro famiglie, a ritirarsi nei villaggi sulle montagne e ad essere “rieducati” dalle dure comunità contadine.

Luo e il suo amico sono piccoli, hanno appena diciotto anni, non sono intellettuali. Ma i loro genitori sono nemici del popolo; medici; “schifosi scienziati”; il padre di Luo è un dentista di fama stellare: si vanta di aver rifatto i denti a Mao. Insolenza grave, perché presuppone una imperfezione del grande dittatore. I due ragazzi vengono mandati sulla montagna della Fenice del Cielo.

La prima sera al villaggio, sporchi di pioggia e fango, i ragazzi vengono sottoposti a perquisizione. Tra le loro cose si trova un violino. Il capo del villaggio lo analizza minuzioso, cercando di capirne l’utilità. Sentenzia, infine: è un giocattolo.

«Capo, è uno strumento musicale» disse Luo con aria disinvolta. «Il mio amico è bravo a suonare. Dico sul serio».

Che cosa suonare? Che cosa può suonare il ragazzo con violino? Mozart. Ma le opere Mozart, come quelle “di qualunque altro musicista occidentale”, sono da anni vietate nel Paese. Che fare?

«Come si chiama, ‘sta canzone?»
«Somiglia a una canzone, ma è una sonata.»
«Ti ho chiesto come si chiama!»
«Mozart…»
«Mozart che cosa?»
«Mozart pensa al presidente Mao», proseguì Luo al posto mio.

Il capo del villaggio si addolcisce.

«Mozart pensa sempre a Mao», disse.
«Sempre», rispose Luo.

Così è il romanzo: ironico, leggero, sospeso, onirico, impossibile. Eppure possibile.
L’Occidente, il maledetto occidente, si infiltra nel piccolo comunista paese di montagna portato in spalla dai borghesi di città, ed entra suonando, con un violino e con Mozart.

Giù, a valle, c’è un altro villaggio. In questo villaggio vive un amico di Luo e del violinista. Porta gli occhiali, e quindi si chiama Quattrocchi. Anche Quattrocchi è in rieducazione: i suoi genitori sono scrittori. E anche Quattrocchi ha portato in spalla con sé il peso proibito dell’Occidente, in una valigia di cuoio stretta con dello spago. Ma l’Occidente di Quattrocchi è più grave di un violino: libri. Libri occidentali. Balzac. Flaubert. Rolland. Una valigia da tenere nascosta sotto il letto con la più ossessiva cautela.

Torneremo più avanti da Quattrocchi. Rimaniamo per un attimo con Luo e il suo amico violinista. Intrattengono il capo del villaggio raccontandogli le trame dei film che hanno visto in città da bambini. Si spezzano nei campi la schiena. Dormono in una vecchia casa di palafitte, sul cui tetto picchia sempre una pioggia stanca, e sotto le cui finestre si insinua una nebbia densissima. Un giorno, Luo e il suo amico violinista conoscono la Piccola Sarta.

La principessa della montagna della Fenice del Cielo portava un paio di scarpe color rosa pallido, di una tela robusta e morbida a un tempo, attraverso la quale si potevano seguire i movimenti delle dita dei piedi ogni volta che premeva il pedale per la macchina da cucire.

La Piccola Sarta è figlia dell’unico richiestissimo sarto della montagna. Una treccia lunga le pesa sulla schiena; i suoi occhi quando ride sono selvaggi, e vive praticamente da sola, poiché sua madre è morta e suo padre è sempre in viaggio.

«Lo sai, Piccola Sarta» disse Luo «che tu e io abbiamo qualcosa in comune?»
«Tu e io?»
«Che cosa scommettiamo?»
«Decidi tu. Sono sicuro di riuscire a dimostrarti che abbiamo qualcosa in comune.»
Lei rifletté un momento.
«Se perdo, ti allungo i pantaloni gratis.»
«D’accordo», disse Luo «Adesso togliti la scarpa sinistra, e anche il calzino.»
Dopo un attimo di esitazione la Piccola Sarta obbedì, vinta dalla curiosità. […]
Quando Luo mise il suo piede sporco, annerito, ossuto, accanto a quello della Piccola Sarta, mi resi conto che c’era davvero una somiglianza fra i due: entrambi avevano l’indice più lungo dell’alluce.

Luo e la Piccola Sarta s’innamorano. Anche il violinista, l’amico fedele e leale, si innamora della Piccola Sarta. Ma se ne innamora in disparte, in silenzio, con bontà di bambino. Diventa protettore del segreto dei due amanti, poliziotto impassibile che scorta e soccorre, senza cedere alle tentazioni, la Piccola Sarta quando Luo non c’è; li aiuta, li adora, li sostiene, e la gelosia gli prende il cuore poco, con moderazione, solo quando è necessaria.

Personaggio incantevole, questa piccola sarta creata dalla penna di Dai Sijie: dal suo piedino sensuale; da un libro nascosto tra i suoi aghi e fili; da come si tuffa, nuda, dalle rocce, nell’acqua fredda dove fa l’amore con Luo, si intravede una donna selvaggia, nascosta e soffocata dalla treccia severa, dai suoi abiti tradizionali, dalla sua timidezza. Che cosa vuole, la Piccola Sarta? Conoscere il mondo; conoscere, soprattutto, la città; conoscere l’amore. È lei a proporre a Luo e al suo amico violinista di rubare la valigia di Quattrocchi: una valigia piena di succulente proibizioni.

Balzac. Flaubert. Rolland. Leggere l’Occidente conturbante alla luce di un fiammifero, nella vecchia casa di palafitte sulla montagna comunista.

Immaginatevi un ragazzotto di diciannove anni, digiuno di esperienze amorose, ancora assopito nel limbo dell’adolescenza, e che non aveva conosciuto altro se non le solite chiacchiere rivoluzionarie circa il patriottismo, il comunismo, l’ideologia e la propaganda. Di punto in bianco, come un intruso, quel piccolo libro mi parlava dell’insorgere del desiderio, della passione, delle pulsioni, dell’amore, tutte cose su cui, fino a quel momento, nessuno mi aveva mai detto niente.

Si sprigiona dai libri di Quattrocchi una nuvola di vapore profumato e soporifero, che si disperde per il paese, infiltrandosi sotto le porte e gli infissi, insinuandosi nelle crepe dei muri, scivolando lungo i tetti a lambirne sensuale i bordi di paglia. Dal primo istante in cui quei libri vengono aperti e si sprigiona la nuvola, il destino dei protagonisti è ormai segnato verso un’unica direzione, tragica, fatale.

Dai Sijie ci insegna, posato, senza una parola di troppo, dalla bocca sottile di un ragazzo cinese che ama suonare il violino, il potere dei libri. Un potere di fata, ma anche di strega, perché getta benzina sul più pericoloso dei fuochi: il fuoco della fantasia, il fuoco della libertà.

E le fiamme di questo fuoco avvolgeranno Luo, avvolgeranno il suo amico violinista, avvolgeranno la Piccola Sarta, e Balzac, e Flaubert, e Rolland, e tutto il piccolo paese comunista della Montagna della Fenice del cielo.

Ci siamo. È venuto il momento di descrivervi l’ultima immagine di questa storia. È tempo di farvi sentire il rumore di sei fiammiferi accesi in una notte d’inverno.

Beatrice Morra 

Beatrice Morra

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