Perché guardare quello che ci piace senza più vergognarci

Ogni volta che siamo a tavola e sintonizzo la tv su Beautiful, mia madre sfodera il solito repertorio di disappunto. Si va dalle esclamazioni di sconcerto alle espressioni facciali più disorientate, che culminano puntualmente nella stessa domanda: ma come fai a guardarlo? E se io un tempo provavo a fornirle una spiegazione, oggi rispondo sempre più di rado. La verità è che non ho più voglia di giustificarmi, e soprattutto non ho più voglia di partecipare al gioco: quello del giudice moralista.

Mi è tornato in mente in questi giorni, nel periodo dell’anno in cui fioccano maggiormente i moralisti, e cioè a ridosso di Sanremo. Il programma più visto (e più longevo) della televisione italiana è anche tra i più criticati dal popolo del web – popolo che, ormai, annovera tutti noi. Da grandi poteri derivano anche grandi responsabilità, direte voi, e giustamente, giacché una tale esposizione non può non portare con sé anche qualche rischio. Anch’io sono tra i detrattori di Sanremo, talvolta, nel senso che non tutto ciò che passa su quel palco è cosa buona e giusta: per esempio l’appiattimento generale delle proposte musicali su livelli standard di gradimento, o la scelta degli ospiti nazionali e internazionali, mentre del ruolo delle donne all’Ariston ne ho già parlato. Ma la mia polemica è quella di chi è talmente affezionato a qualcuno o qualcosa da volere che non avesse difetti, da desiderare di migliorarlo, giacché sono uno dei più accaniti sostenitori della kermesse da molto prima che ritornasse di moda.

I moralisti, invece, nella settimana del Festival ci tengono a farti sapere che loro Sanremo non lo guardano, non gli interessa, non sanno nemmeno su quale canale vada in onda, salvo poi commentare le presenze e le performance. Esatto, non sto parlando di quel tipo di moralisti bacchettoni, di quelli che si scandalizzano per il fake nude di Chiara Ferragni o per il bacio tra Fedez e Rosa Chemical; no, mi riferisco a coloro che vorrebbero che Sanremo non esistesse proprio. Quelli che strabuzzano gli occhi, che sogghignano spocchiosi e s’indignano per finta di fronte alla rovina culturale dell’umanità. Che sarebbe rappresentata, appunto, da Sanremo, reo di essere troppo italiano, troppo popolare, troppo festaiolo, di escludere il rock, di aver ammazzato il cantautorato, di non avere almeno dieci compositori di concerti per violoncello tra gli artisti in gara. In una sola parola, di essere pop.

Fateci caso: questa pseudo-indignazione d’alto bordo colpisce tutto ciò che si rivolge al grande pubblico. Nel cinema, è la commedia. Nelle serie, sono i teen drama. Nella musica è praticamente tutto quello che passa per radio. E poi ci sono le soap opera, i fumetti, i film d’azione, i romanzi sentimentali e i chick lit, le boyband, le serie tv spagnole e i reality show. Il bersaglio di questa condanna senz’appello è molteplice e multiforme, sicché nessuno può sfuggirvi.

Mi ricordo che nei miei primi anni d’università Lady Gaga cominciava a imperversare coi suoi ritornelli ossessionanti. Io ascoltavo a ripetizione Telephone e Alejandro – per la verità, non ho ancora smesso di farlo – e c’era sempre chi mi faceva sentire in dovere di giustificarmi. Di dover aggiungere che comunque ascolto anche qualche rock band e l’R&B anni Sessanta, come se questo facesse di me una brava persona.

Ma il vero tasto dolente sono sempre state le mie preferenze in fatto di film. Per me, che sono un patito di cinema dalla nascita, si trattava di stare molto attento ai titoli che annoveravo tra i preferiti. Via col vento va bene, Viale del tramonto molto bene, American Beauty è perfetto. Il problema sorge quando tiro in ballo Mean Girls o le commedie con Julia Roberts. È qui che mi gioco la credibilità, o quando ammetto di scompisciarmi dalle risate con i vari Scary Movie (il terzo in particolare mi fa morire). Allora divento uno che non ne capisce veramente di cinema, povera Italia e povero me, possa Dio avere pietà della mia anima.

Per i moralisti, il reato di cui si macchiano i prodotti popolari è di essere leggeri, da intendere come non impegnativi. Votati esclusivamente all’intrattenimento. Non è che per loro non dovremmo ridere, ma dovremmo farlo solo con la satira politica e di costume. Una risata che non implichi una riflessione sui massimi sistemi non è degna di essere emessa. E invece, il motivo per cui guardo Beautiful è proprio questo: spegnere il cervello. Le liaison dei Forrester mi sembrano il giusto contraltare alla narrazione del telegiornale, il modo più scanzonato per concludere quell’oretta di televisione che coincide con la fascia prandiale. Prima il dovere e poi il piacere. Io sento Ridge e la sua famiglia discutere a ripetizione delle stesse identiche cose per settimane, e non penso più a niente. Perciò capisco chi segue i reality show. Quello che non capisco, invece, è il motivo per cui dobbiamo continuare a difenderci. Oggi ci siamo inventati quest’espressione, guilty pleasure, per scusarci delle nostre visioni senza doverci scusare. La utilizziamo come premessa alle nostre sfrontate confessioni, come a dire sai, guardo i film con Sylvester Stallone, ma è solo il mio guilty pleasure. Nulla di più inadeguato: un piacere proibito è una scorpacciata di dolci quando hai il colesterolo alto, non il sacrosanto diritto a divertirsi. Già, perché – diciamoci la verità – a volte non è soltanto questione di relax, ma è che a noi certe vicende c’intrigano proprio. Magari una telenovela può anche valere l’altra, ma le vicende di Emily in Paris ci appassionano. Bridgerton ci fa palpitare il cuore. La casa di carta ci tiene col fiato sospeso.

E allora abbiamo il coraggio di proclamarlo. Smettiamola di vergognarci come se avessimo rubato le mele al supermercato. Tanto, volete sapere una cosa? Anche i moralisti più sfacciati ci tengono a non farci sapere che comprano le riviste di gossip e ridono coi cinepanettoni. La differenza è che noi saremmo ben lieti di far uscire i loro scheletri dall’armadio. Alla fine, tutti guardano Sanremo. E pure mia madre vuol sapere quante volte si è sposata Brooke.

Andrea Vitale

Andrea Vitale nasce a Napoli nel 1990. Frequenta il liceo classico A. Genovesi, e nel 2016 si laurea in Filologia moderna alla Federico II. Ama la musica e la nobile arte dei telefilm, ma il cinema è la sua vera passione. Qualunque cosa verrà in futuro, spera ci sia un film di mezzo. Magari, in giro per il mondo. Attualmente frequenta un Master in Cinema e Televisione.

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