Racconto: Questa nostra guerra – Piergiorgio Andreani

Racconto: Confine
Call: Conto alla rovescia


Esco solo quando cala il sole, di giorno non è sicuro. Dietro quella porta ci sono i nemici. Gli unici amici che ho sono qui dentro.

Si chiamano Boris, Marko e Katia. Li ho conosciuti quando è iniziata questa nostra guerra. Non sono riusciti a lasciare Pogoren quando ancora si poteva, e ora viviamo insieme. Loro sono me, e io sono loro.

Boris avrà cinquant’anni. Prima del conflitto lavorava in un deposito di merci; è per questo che scelgo quasi sempre lui per andare in cerca di cibo, medicinali, erbe, sigarette, materiale per costruire. Può caricare diciassette oggetti. Un piede gli è rimasto schiacciato sotto le macerie qualche tempo fa. È più o meno guarito ma non può correre molto, e credo zoppicherà a vita. Sua moglie Ana è stata uccisa dai cecchini mentre cercava medicine per il loro bambino, che non ha superato la malattia.

Marko era un pompiere. Ha conosciuto sua moglie appena entrato in servizio. Scoppiò un incendio in un’abitazione e, quando qualcuno segnalò che una donna era rimasta intrappolata, lui si lanciò dentro e la portò in salvo. Non troppo tempo dopo si sposarono. Ha anche due figlie, che si sono rifugiate con la madre fuori città. Credo non abbia più di trentacinque anni. È molto agile, ma non riesce a caricare il peso che può portare Boris. Al massimo quindici.

E poi c’è Katia. È molto carina ed è una giornalista. Girava il mondo e intervistava persone famose, ma anche lei ha sospeso la sua esistenza precedente. In guerra puoi essere poche cose: se sei in un ufficetto fuori dalla battaglia, allora o sei un politico o un generale. Se sei sul campo, sei un soldato o un civile che sta pagando le conseguenze delle decisioni dei primi. Tutto qua. Katia ci sa fare con le persone e così, se si tratta di barattare cose, mando lei. Riesce sempre a strappare buoni affari.

Quando ci siamo rifugiati in questa casa non abbiamo perso tempo. La prima cosa è stata improvvisare dei letti: abbiamo scelto di metterli al piano inferiore, per essere più protetti. Poi abbiamo chiuso con assi di legno i buchi delle pareti crollate e delle finestre distrutte. Perché in guerra è così che si vive, come ratti che difendono la loro tana.

Il problema maggiore era il riscaldamento. L’inverno non era lontano e il rifugio è grande. Così abbiamo scelto le stanze che avremmo usato di più e ci siamo concentrati su quelle; poi, quando siamo riusciti a procurarci il necessario, abbiamo costruito una stufa a legna. Per ora va bene così. È mezzanotte. È ora di uscire.

5 GIORNI ALLA FINE

Ieri a mezzanotte, come ogni notte, mio figlio è sgattaiolato fuori dalla camera per andare a prendere qualcosa da mangiare. La cosa che mi terrorizza è che mi sto abituando. Sembra tutto normale. Non ho idea di cosa fare è una frase che suona banale, eppure è esattamente così.

Da bambino sorrideva molto. Non riesco a ricordare l’ultima volta che mi ha sorriso. Mi distrugge, mi manca.

Certe volte vorrei buttare giù quella porta a calci e urlargli che sta sprecando la sua vita. Vorrei trascinarlo fuori di lì tirandolo per i capelli, obbligarlo a stare alla luce del sole e a rivolgere la parola a qualcuno. A me, a suo padre, a sua sorella. Ma otterrei solo rabbia, rifiuto, rigetto. E poi non ci riuscirei mai. È il mio bambino.

Perciò rimaniamo così. Noi che viviamo di giorno e lui di notte, noi che ci alziamo e lui che va a dormire, noi che andiamo a dormire e lui che si alza. Ci si incontra ogni tanto. Per caso, per sbaglio. È come se gliel’avessimo affittata, la sua camera.

E quel computer? Vorrei che non glielo avessimo mai comprato. No, ancora meglio, vorrei che non li avessero mai inventati. Che non avessero mai inventato internet e i videogiochi.

Quello a cui sta giocando ha delle musiche così tristi. Ha rubato mio figlio e lo rivoglio indietro, dovessi abbattergli la casa intorno. Ieri ho dato un pugno alla sua porta. Così, per rabbia. Nessuna risposta.

4 GIORNI ALLA FINE

Abbiamo rinforzato la porta di ingresso, perché negli ultimi tempi i nemici si sono fatti più audaci. Sappiamo che cercheranno di entrare per prendere ciò che è nostro.

Per fortuna abbiamo delle medicine, perché Katia è leggermente malata. Probabilmente è solo un’influenza, ma sotto le bombe anche un banale raffreddore può degenerare. Passa quasi tutto il giorno a letto, poverina. Peccato, perché avevamo trovato una vecchia chitarra e lei è l’unica che sa suonarla un po’, così ci arrangiamo con la radio. Ascoltiamo le stazioni dei pochi coraggiosi rimasti a trasmettere, che mandano musica e danno notizie sul conflitto.

Giorni fa sono venuti a chiederci aiuto perché delle persone erano rimaste sepolte sotto le macerie dopo un bombardamento. Boris è andato con loro e, al suo ritorno, ci ha raccontato di come siano riusciti a estrarre vivi quasi tutti, compresa una bambina. Piangeva mentre ce ne parlava. La battaglia più grande, durante la guerra, è non perdere l’umanità e diventare i ratti di cui parlavo, che si contendono le fogne meno disgustose. Anch’io ho pianto con lui.

Proprio poco fa alcuni dei soccorritori sono tornati, portandoci una bottiglia di buon liquore come ringraziamento, e così ci siamo commossi di nuovo. Evidentemente non avevamo versato abbastanza lacrime. Razza strana, quella umana. Impiega risorse monumentali per ammazzare, ma si scioglie in pianto per un gesto di altruismo. Non c’è granché da fare, durante il giorno. Ora sono seduto e fisso la bottiglia. Ho così tanto tempo per riflettere che a volte mi vengono in mente cose assurde. In questo momento, per esempio, sto pensando che dovremmo essere grati che ci sia la guerra, perché se non ci fosse non guarderei questo liquore come in tempo di pace si guarda un diamante.

3 GIORNI ALLA FINE

Stanotte è scomparso il tè freddo dal frigo. Mio figlio lo adora come un alcolista fa coi liquori. E ama anche le zucchine.

Oggi, al supermercato, ho allungato la mano per prenderne una bella grande e, nello stesso momento, un’altra donna che non avevo mai visto, ha afferrato l’altra estremità. L’abbiamo lasciata subito entrambe e ci siamo guardate, per poi sorriderci e chiederci scusa a vicenda. Sono stata la prima a giustificarsi.

«A me nemmeno piacciono, le prendo solo per mio figlio”». Mi ha risposto che anche per lei era lo stesso. Mi ha chiesto della sua età e della scuola ed è rimasta stupita dalle mie risposte, cioè Sedici e No, mio figlio non va a scuola da alcuni mesi, ha voluto così.

Ha colto la mia tristezza. Il suo ne ha ventidue e, quando aveva l’età del mio, anche lui non voleva andare a scuola e rimaneva nella sua stanza senza parlare con nessuno.

«Ma ora ne è uscito. A un certo punto ho capito che sbagliavo, con lui. Vorrebbe tirarlo fuori a forza, vero?»

Ho annuito.

«È qui che sbagliavo. Un Hikikomori non può essere obbligato a lasciare il suo rifugio sicuro di colpo. È un trauma.»

Non avevo mai sentito quella parola in vita mia, tanto che ho creduto avesse farfugliato qualcosa che non avevo capito.

«Come ha detto, scusi?»

Ha sorriso. «Hikikomori. È un termine giapponese che si usa per definire i ragazzi come i nostri figli». Abbiamo accostato entrambe i carrelli per liberare il passaggio. Lì ho capito che sarebbe andata per le lunghe e che dovevo ascoltarla. Poi ci siamo scambiate il numero. Forse stavo davvero sbagliando tutto. Mi avvicino alla sua porta e dico Ehi, sono a casa. Non pretendo una risposta.

2 GIORNI ALLA FINE

E se un giorno arrivasse finalmente una tregua? Una tregua vorrebbe dire che potremmo uscire dal nostro rifugio senza trovare più tanti nemici là fuori.

Essere abituati al modo in cui viviamo da mesi pare l’ostacolo più grande, più della paura dei cecchini. Troveremo il coraggio di rischiare e aprire quella porta? Riusciremo ad abbandonare queste mura che ci hanno prima salvati e poi protetti? E se sì, saremo in grado di essere di nuovo noi stessi? O arriveremo a desiderare di tornare nel rifugio, come si desidera l’inverno per sentire freddo e ritrovare il conforto di una coperta di lana?

1 GIORNO ALLA FINE

Mi ha risposto. Ha risposto a un mio messaggio scritto su un foglio di carta. Credevo che l’avrebbe ignorato.

Ho sempre visto tutto questa situazione come un orrore, qualcosa da combattere con tutte le forze. Ho giudicato mio figlio come un emarginato, ma quella donna, al supermercato, mi ha fatto capire. Devo provare a comprendere il mondo che si è costruito.

Ho lasciato il foglio nel frigo vicino al cibo: Le musiche di quel gioco sono tristi ma molto belle. Che gioco è?

Stamattina l’ho ritrovato davanti alla sua porta, con un rigo in più. Mi mancava persino la sua grafia. Dice This War of Mine. E se fosse l’inizio della fine di questa nostra guerra?

LA GUERRA È FINITA

La tregua è arrivata e abbiamo aperto la porta del nostro rifugio, per provare a tornare alle nostre vite.

Boris dice che cercherà di nuovo lavoro come magazziniere o roba del genere. Vuole ricominciare una nuova vita, ma il dolore per la perdita della moglie e del figlio lo accompagnerà per sempre.

Marko è tornato dalla sua famiglia. Hanno vissuto lontani le atrocità della guerra, ma la forza del loro legame li aiuterà a superarle.

Katia ha ritrovato i suoi genitori in un campo rifugiati non lontano da Pogoren e, col tempo, li ha aiutati a ricostruire la casa. Durante la guerra ha scritto così tanto che ha pubblicato il suo diario, che è diventato una grande testimonianza di questo conflitto.

Quanto a me, ho aperto la porta quando mia madre ha bussato. Ieri mi ha lasciato un biglietto chiedendomi a cosa stavo giocando, perché sentiva la musica da fuori. Stasera è venuta a portarmi da mangiare, così non dovrò andare io al frigo. L’ho ringraziata. Era da un po’ che non la vedevo sorridere, negli ultimi tempi non abbiamo fatto altro che litigare, le poche volte che ci siamo incrociati. Poi si è allontanata.

IL GIORNO DOPO LA FINE DELLA GUERRA

Stamattina mi sono fatta forza e ho bussato alla sua porta. Mi ha aperto. Gli ho portato da mangiare. Mi ha detto grazie, e ha sorriso. Non so da quanto non lo vedevo sorridere. Ho dovuto allontanarmi quasi bruscamente perché non volevo metterlo in imbarazzo. Sono corsa in bagno e ho pianto.


Nato nel 1983, vive a Macerata ed è laureato in Informatica. Ama il canto e la scrittura. Ha pubblicato racconti su riviste letterarie (In fuga dalla bocciofila, Birò, E(i)sordi, L’irrequieto, Racconticon e altri) e su raccolte (Inchiostro Noir di Delmiglio Editore e Rivista Inchiostro, Riflessi di Poderosa Edizioni, Marche d’Autore 4 di Poderosa Edizioni e altri).

Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

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