Cosa sogneremo quando tutto diventerà visibile?
Selezionato dall’Hay Festival come uno dei migliori scrittori latinoamericani sotto i 39 anni, nel 2010 è la rivista Granta a scegliere Rodrigo Hasbún come uno dei 22 migliori giovani scrittori in spagnolo. Lo scrittore boliviano ha pubblicato El lugar del cuerpo e due raccolte di racconti. Gli anni invisibili, tradotto da Giulia Zavagna, è la seconda opera pubblicata da Sur, Hasbún ha esordito in Italia con il romanzo Andarsene.
Una terra neutrale per ritrovarsi
Sono passati ventun anni da quel marzo in cui qualcosa di grave accadde, tutto venne stravolto e nulla si poté salvare. Il narratore, nella penombra di un bar di Houston ritrova una amica, che lui chiama Andrea, tornata dal passato dopo aver letto un’anteprima del suo nuovo romanzo, uscita su una rivista. Quel romanzo parla di loro, di quegli anni invisibili, mette in luce ciò che è accaduto. La incontra in una terra neutrale, gli Stati Uniti, dopo aver lasciato la Bolivia, in particolare la città di Cochabamba, in cui sono cresciuti, la stessa città natale di Rodrigo Hasbún; da questo incontro scaturiscono tutte le immagini archiviate di un passato quanto mai doloroso. La loro storia vista e rivista, rimandata, sospetta, accelerata e vista al rallentatore tormenta il narratore da anni. Quel che è accaduto ventun anni prima «o cento o mille, non fa differenza: tutto ciò che entra a far parte del passato diventa irreale, una menzogna che alcuni a volte condividono». La menzogna di cui parla percuote parole definite “immobili” ed è strettamente legata a un vuoto incolmabile di quegli anni che hanno lasciato di fronte a sé un’unica verità: «Le persone che eravamo laggiù somigliano poco alle persone che siamo qui oggi. Le persone che eravamo laggiù non avrebbero mai immaginato le persone che siamo qui oggi». La frattura dolorosa creatasi nel gruppo non ha dato le ragioni che tutti si aspettavano, ha disperso nuclei famigliari, ha messo in evidenza la sterilità di quei rapporti consumati all’ombra di qualche bevuta di troppo, qualche confine spinto un po’ più in là, lasciando dietro di sé un campo sterminato di indifferenza, di solitudine e infine, di amarezza. I due amici si sentono “animali dopati” che nonostante siano trascorsi ventun anni senza vedersi, “continuano a trascinarsi”.
L’inizio di tutto è già lì
La ragazza chiamata dal narratore Andrea, meschinamente rivela la rabbia per nulla sopita per ciò che è accaduto in quell’anno fatidico, punta il dito contro, allo stesso tempo, chi l’ha lasciata sola, chi è scomparso dalla sua vita, contro se stessa senza perdono possibile: «se fosse per me gli esseri umani non dovrebbero avere memoria. Il passato è un peso inutile, magari potessimo metterlo da parte, magari potessimo almeno decidere quali ricordi conservare e quali no». Ma il passato è inestinguibile per sua natura. E i protagonisti del romanzo di Rodrigo Hasbún finiscono per farsi schiacciare dalla magnitudo eccezionale del passato, convinti che «i ricordi felici e i ricordi infelici sono ugualmente ingombranti». E se il narratore crede che scrivendo di quegli anni se ne sarebbe liberato, alleggerendone il peso, finisce per confessare al lettore che spesso è «avvenuto il contrario». Così una serie di interrogativi affliggono la voce narrante che si chiede se «siamo le domande che facciamo? O meglio siamo le domande che non abbiamo il coraggio di farci?». E ancora, il fatto di porsi delle domande significa trovarsi «sulla buona strada?». Che cosa è realmente accaduto ventun anni prima? E prima di allora cosa stava accadendo ai loro corpi? Ladislao, uno dei protagonisti del passato sorveglia il nascente sentimento per Joan, si chiede se sia amore quello che prova e individua nel proprio animo «l’inizio di ciò che non riuscirà mai a togliersi dalla testa […] L’inizio di ciò che lo avvicinerà o lo allontanerà dalla versione più luminosa di sé stesso, dalla versione più miserabile di sé stesso. L’inizio dell’incertezza, il punto di non ritorno».
L’inventario dei corpi
Ogni singolo frammento fotografico, se fosse stato scattato, racconterebbe di corpi nascenti, visibili. Corpi che testano i confini che vogliono oltrepassare, l’alcol, la droga, i rapporti opportunisti e le verità occultate, che si chiedono ancora una volta se «lasciarsi andare è la migliore decisione possibile o la peggiore?». Oggi i due amici, seduti nel bar di Houston, hanno un rapporto di soggezione con il passato, si interrogano su cosa potranno ancora sognare quando tutto sarà reso visibile? Il passato, allora, è qualcosa da cui difendersi, perdersi, angosciarsi. Hasbún riscrive un inventario di loro stessi che «inizia con quelle minuzie» e da lì non smette più. Racconta quei corpi svegliati da emozioni forti, incapaci di prendere confidenza con i piccoli cambiamenti inevitabili, del tempo. Uno zeitgeist che determina in tutto e per tutto le loro vite. «Anche se si sostituissero tutti i pezzi, anche se ogni dieci anni ci mettessero un nuovo cuore e nuovi polmoni, la vita comunque ci abbandonerebbe sempre prima dei cento anni. È il tempo massimo che gli esseri umani possono tollerare, il tempo massimo che potrebbero tollerare anche se ricondizionati». Rigenerarsi sostituendo pezzi di sé, consapevoli che la memoria continuerebbe a tormentarli, a consolarli la parola fine, che presto o tardi arriverebbe.
Gli anni estranei
Gli anni invisibili sono quelli trascorsi distanti dal paese natale «due boliviani che non vivono più in Bolivia, come tanti altri boliviani». Sono quelli trascorsi da quel marzo “schifoso”, ma sono anche quegli anni diventati invisibili perché estranei, vissuti a distanza dalle persone che hanno costruito quel passato oggi preso di mira: «tutti pensano che il passato sia meno incerto, che il passato sia una specie di rifugio dove possiamo tornare di corsa ogni volta che le cose vanno a finire male». Invece il passato non perdona le scelte e le azioni compiute, non restituisce una sola risposta, quella che il narratore chiama Andrea, ammette che il passato è il luogo in cui conserviamo gli inganni, torniamo a quella menzogna cui faceva cenno il narratore. Hasbún fa cadere, una alla volta, quelle maschere che inseguiamo da quando siamo nati, che giudicano i nostri vissuti finendo per determinare, in quegli anni invisibili, la materia in cui ci siamo trasformati, «quello che ognuno di noi ha finito per diventare ha poco a che vedere con quello che siamo stati prima. Ciò che definisce quello che finiamo per diventare è ciò che non vediamo arrivare, gli imprevisti sono ciò che incide di più». E quel marzo di ventun anni prima era stato pieno di imprevisti “grandi e piccoli”. La voracità, la violenza, l’indifferenza e quella sottile malinconia fanno da specchio per la generazione di Ladislao e Andrea. Quindi il passato reprimente è, infine, ciò in cui riconoscersi oppure è lo strumento per dimenticarci chi siamo?
Un punto di vista privilegiato nella scrittura di Hasbún
Presente e passato finiscono per legarsi nella scrittura sostanziale di Rodrigo Hasbún, un racconto che ritrova in quel mondo perduto l’avventatezza e spregiudicatezza di una gioventù pronta a ipotecare un futuro sconosciuto per cancellare quel dolore “che rimpicciolisce la gente”. Hasbún descrive una generazione di giovani non ancora immuni all’individualismo, in cui la spinta emozionale non segue orientamenti canonici e per i quali il passato è ancora una parola sconosciuta, ma che oggi, a Houston, pone l’accento su cosa sia veramente cambiato nelle loro vite, «non è questione di essere migliori o peggiori, è che le cose si rompono, le vite si trasformano o finiscono da un secondo all’altro e per sempre». Capirlo non è cosa semplice.
Un autore forte con un punto di osservazione privilegiato che sa colpire direttamente alla pancia del lettore, che lascia in eredità ai suoi personaggi il libero arbitrio credere se meritare o no di essere amati, “tollerare o no gli abusi”, aspettarsi “molto o poco dalla vita”. Di tornare dal passato, scarichi e in cerca di quiete.
Paola Zoppi
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