Storia di un capolavoro mai realizzato: Il viaggio di G. Mastorna

Un aereo di linea, in piena notte, sta attraversando una furiosa tempesta. Tra i passeggeri terrorizzati c’è un uomo di quarantacinque anni che nella vita fa il violoncellista. Le turbolenze non paiono cessare, l’aereo sobbalza violentemente, un lampo di luce improvvisa illumina le montagne vicine, finché ad un tratto tutto si placa. L’aereo si stabilizza ed effettua un atterraggio di emergenza in una città nordica dove in lontananza si scorgono le guglie di una cattedrale gotica. L’uomo, frastornato, percorre le strade della città, ma qualcosa lo turba: il luogo gli sembra allo stesso tempo sconosciuto e familiare, la gente a tratti parla una lingua incomprensibile e non si capiscono neppure i cartelloni stradali. Egli vorrebbe scappare da quel luogo che lo mette a disagio e per questo si reca alla stazione per continuare il suo viaggio. Ma lì succede qualcosa di ancora più inquietante. Sul treno di fronte un ragazzo lo saluta. L’uomo, pietrificato dall’orrore, riconosce quel ragazzo: si tratta di un suo vecchio amico, morto tanti anni prima.

Inizia così quello che il giornalista Vincenzo Mollica ha definito «il film non realizzato più famoso della storia del cinema», ovvero “Il viaggio di G. Mastorna” di Federico Fellini. Il primo copione cinematografico vide la luce all’inizio degli anni Sessanta, quando il quarantenne regista riminese, già vincitore di due premi Oscar, conduceva una vita apparentemente perfetta. I critici, infatti, esaltavano i suoi lavori, i produttori lo seguivano e il pubblico riempiva le sale. Ma ciononostante Fellini era infelice e cercava una risposta al suo malessere. Già qualche anno prima, al tempo del successo de La strada, aveva sofferto di una crisi depressiva e aveva cercato conforto nella psicoanalisi freudiana, non ottenendo però alcun risultato. Fu allora che, su consiglio di un amico, prese una decisione che avrebbe cambiato per sempre il corso della sua vita (e della sua carriera artistica): si affidò alle cure di Ernst Bernhard, terapeuta tedesco noto per aver portato la psicologia junghiana in Italia. Tra i due si creò una sintonia immediata, probabilmente anche grazie all’approccio amichevole adottato durante le sedute che sfuggiva al rigore della terapia tradizionale. Bernhard invitò Fellini ad usare l’I Ching, l’oracolo cinese che predice il futuro, gli insegnò a non avere paura dell’ignoto, ma soprattutto gli suggerì di appuntarsi i suoi sogni su un diario.

Da quel momento in poi, grazie anche al progetto Mastorna, Fellini cominciò a ripensare sé stesso e attraverso la crisi rinacque per dare vita alla seconda parte della sua filmografia. Emblema di questa nuova fase è Giulietta degli spiriti, primo spiazzante lungometraggio a colori, che segnò una svolta non solo sullo schermo, ma anche nella vita privata del regista. Al termine delle riprese, infatti, Fellini troncò i rapporti con alcuni dei suoi collaboratori storici, come lo sceneggiatore Ennio Flaiano e il produttore Angelo Rizzoli. Ormai Federico era cambiato – dicevano – aveva perso il contatto con la realtà e si era sempre più isolato. Fu a questo punto che decise di mettere in scena la storia di quell’uomo che, dopo un viaggio di fortuna, si ritrova in una città incomprensibile: il suo prossimo film sarebbe stato Il viaggio di G. Mastorna.

Giulietta degli spiriti

La storia ha un’origine lontana e si ispira ad un racconto di Dino Buzzati che Fellini lesse quando era ancora adolescente, “Lo strano viaggio di Domenico Molo”, che narra di un ragazzino di dodici anni che, morendo, si ritrova in una città sterminata e senza nome. Nella trasposizione felliniana quel ragazzino diventa un uomo di quarantacinque anni, come lui, che cerca una strada in un aldilà caotico e surreale. Perché in realtà quell’aereo non è atterrato, ma si è schiantato al suolo, e quell’uomo col violoncello si sta muovendo in una dimensione che va oltre la vita. E in questa dimensione in cui sogno e vita reale si mescolano, viene ricapitolata l’intera cosmogonia onirica del Fellini di allora: ci sono uomini che festeggiano la liberazione dalla paura della morte gettandosi nel vuoto, c’è un’assurda cerimonia di premiazione che ricorda la notte degli Oscar, e ci sono monatti che caricano su un camion persone affette da una strana malattia che li costringe ad un sonno senza fine.

Per questo film Fellini poteva contare sul produttore Dino De Laurentiis, il quale, nonostante fosse poco convinto del soggetto, ritenendo che il tema della morte portasse male, comprese che farsi sfuggire l’occasione di lavorare con il re del cinema italiano sarebbe stato un errore imperdonabile. Così nella primavera del 1965 Fellini incontrò Buzzati e i due cominciarono a lavorare alacremente alla scrittura del copione. Ma durante l’estate di quell’anno Buzzati, che stava realizzando un’inchiesta per il Corriere della Sera su maghi e veggenti d’Italia, chiese a Fellini di fargli da guida e in quel breve viaggio verso l’ignoto Fellini conobbe diversi personaggi bizzarri, tra cui il misterioso Gustavo Roll, noto sensitivo di Torino, col quale strinse un forte legame. Nel frattempo la preparazione del Mastorna proseguiva regolarmente: De Laurentiis aveva costruito sulla Pontina degli studi in grado di competere con quelli di Cinecittà, nei quali era stata allestita l’intera scenografia del film. Per il nome del protagonista circolava la voce di Marcello Mastroianni e non sembrava mancare molto all’inizio delle riprese. Tuttavia il regista era tormentato da quell’inquietudine che lo rendeva fragile, nervoso e preda delle sue ansie infinite. Anche l’attività onirica, riportata fedelmente nel suo Libro dei sogni, era turbata e contraddistinta da continui presagi funesti. Per di più circolava la voce che un giorno Roll gli avesse fatto trovare in tasca un biglietto con su scritto un laconico avvertimento: «Non girare questo film». Nel settembre del 1966 Fellini, allora, decise di rinunciare alla realizzazione del film, iniziando una disputa legale con De Laurentiis che sarebbe terminata con il sequestro di quadri e soprammobili nella casa del regista. I rapporti, però, si ricucirono dopo pochi mesi e la produzione del Mastorna poté ricominciare. Tuttavia l’inquietudine del regista non tardava a riproporsi tanto nella vita privata quanto sul set ed i sogni tornavano a turbarlo con visioni di strade sbarrate, segnali di stop, decapitazioni e catastrofi. Così nell’agosto del 1967 Fellini firmò un contratto con De Laurentiis che sostituiva quello precedente per tre nuovi film, tra i quali Il viaggio di G. Mastorna non c’era. In seguito ad altri episodi di sincronicità ed ulteriori ripensamenti e proposte allettanti, nel 1976 il Maestro gettò il copione in un armadio, chiudendolo a chiave per sempre. Il viaggio di G. Mastorna era terminato.

In realtà quel viaggio sognato non terminò mai del tutto e per quasi trent’anni continuò a nutrire di idee, fantasie ed immagini le opere di Fellini. Come un treno fantasma lanciato verso l’ignoto, il Mastorna continuò a vagare, «disperso dei dispersi», su un binario parallelo a quello della produzione ufficiale, alla ricerca disperata di una soluzione al mistero insondabile della morte che combacia con il mistero stesso della vita.

Valerio Ferrara

Valerio Ferrara nasce a Napoli nel 1990. Dopo aver conseguito il diploma classico, frequenta la facoltà di Economia, maturando in seguito la decisione di abbandonare questo percorso e intraprendere gli studi umanistici presso il dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli studi di Napoli Federico II, dove consegue la laurea in Sociologia, presentando una tesi in Sociologia dei processi culturali e comunicativi. La sua più grande passione è il cinema, con una spiccata predilezione per quello d’autore. Amante della musica sin dall’infanzia, è stato membro dei Black on Maroon, una band alternative rock partenopea. Dal 2016 è redattore della rivista Grado Zero.

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