Vite mai avvenute. Su “Opus metamorphicum” di Sonia Caporossi

Quale posto occupano le “vite illustri” nella storia della cultura? Come si rapportano al tempo le biografie lette, masticate, strappate all’antico e rifunzionalizzate per comprendere il nostro presente? Opus Metamorphicum (A&B Editrice, 2021) di Sonia Caporossi, ideale seguito di Opus Metachronicum (Corrimano, 2014), si pone questi interrogativi, e con lo strumento del monologo – un monologo delirante, irriverente, agitato – conduce le vicende di personaggi celebri di fronte alla loro archetipizzazione, alla frizione che si genera tra la verità della storia e l’infinita sua possibile interpretazione.

Il compendio bulimico

Già la struttura dell’Opus ci dice molto sul suo obiettivo. L’orizzontalità, la coralità, lo rendono simile a un compendio di strane biografie, scritte rielaborando l’«antico modus del conte philosophique» e in grado di produrre, a loro volta, una sorta di inventario di tipi umani. Le quindici prose, infatti, sono ognuna dedicata a un personaggio noto, che tuttavia – tornerò su questo in chiusura – viene strappato alla storia e riciclato in icona, trasformato in varco di significato e coincidenza tra vita e simbolo.

Anche la scelta degli exempla, poi, illumina il progetto dell’opera: ce ne dà conto la stessa autrice, quando, nell’Avvertenza al lettore, segnala come «ogni personaggio» del libro sia «tratto dalla storia del pensiero, della letteratura o dell’arte», e poi come «Maria e Maddalena» siano «gli unici due personaggi femminili». Capiamo così di trovarci di fronte a un rifacimento delle Vite di Vasari, un rifacimento bulimico, ampliato a vari campi del sapere (passiamo dalla filosofia di Nietzsche e Hegel alla letteratura di Poe, dall’arte di Michelangelo alla matematica di Fibonacci) e orientato, anche, alla denuncia di una «cultura storicamente priva di matrilinearità».

Questi rimangono i cardini su cui si innesta il discorso del libro, l’idea che nel percorso che si può tracciare tra la vicenda di questi personaggi, la loro opera e le loro possibili interpretazioni – anche irriverenti, allucinate – stia la rilevanza delle loro esperienze. Il caso di Joker – unico personaggio di fantasia tra quelli biografati – e di Maria e Maddalena – che, dice la stessa autrice, «rimangono mute in quanto donne sopraffatte dalla Religione» – sono eccezioni che, sì, confermano la regola, ma indicano anche alcune piste secondarie: che l’esemplarità si configura come status anche oltre l’effettiva storicità del personaggio (Joker che, insomma, non è mai esistito); che la scelta del punto di vista (le vicende sono raccontate in prima persona tranne nel caso delle due donne) cela una parzialità di sguardo e dunque, anche, una censura o narrazione di potere.

Ironia, accumulo, citazione

È evidente, comunque, che Caporossi non vuole ripetere pedissequamente l’esercizio delle biografie esemplari o del «conte philosophique»; vuole semmai piegarlo a nuove esigenze storiche ed estetiche, che rifiutano in partenza l’adesione a un exemplum morale, la sua necessità (e infatti, si dice, «ogni personaggio […] ostende un aspetto poco edificante dell’essere umano»). Le biografie caporossiane sono dunque parodie, anche, tanto dei personaggi antologizzati quanto delle tecniche del conte.

Tale tendenza parodica si scorge principalmente nello stile, un martello che inclina la compostezza della struttura del libro, esagera o a fa affogare nel vizio i protagonisti dei racconti. E alla base di questo delirio ci sono tre tecniche, spesso intrecciate fra loro: l’ironia, l’accumulo e la citazione. L’ironia – sappiamo dall’etimologia del termine – è un gioco del “contrario”, e ha lo scopo di ribaltare e abbassare tanto il tono del conte philosophique – altrimenti “elevato” – quanto il mito dei personaggi (non per questo squalificandoli, anzi commisurandoli alla sensibilità moderna, e cioè, in certo senso, esaltandoli): per questo verso, il libro viene attraversato da una serie di giochi umoristici, freddure, calembours. L’accumulo, poi, permette di inspessire la caratura simbolica del personaggio, che diventa così un sasso lanciato nel lago dell’estetica umana, da cui si diramano cerchi di senso sempre più larghi. E infine interviene la citazione – strumento ironico a sua volta, decontestualizzante – che porta a termine un compito complementare a quello dell’accumulo: radiografa il protagonista, individua i punti che compongono la sua costellazione e che disvelano, soprattutto, il suo linguaggio.

Anacronismo e archetipo

La struttura dell’inventario e la costituzione di un linguaggio-arca – citazionista, sarcastico e spregiudicatamente accumulatorio (si passa senza soluzione di continuità dal greco al turpiloquio) – sono la conditio sine qua non dell’obiettivo centrale dell’Opus. Questo obiettivo consiste in una forma allucinata di apoteosi per cui il personaggio-artista, il personaggio-filosofo o, insomma, il personaggio-esempio, viene convertito in centro gravitazionale, buco della storia orientato secondo un certo significato e scolpito nei bordi dal proprio corredo genetico-semantico (opere, episodi biografici, ricezione critica, analogie).

In questo modo Hegel diventa il «filosofare con la memoria», Fibonacci la scoperta del «numero corrispondente al nome di Dio», Michelangelo l’artista che «non pensa, sente», e così di seguito, con Rimbaud che – raccontandosi tramite la sequenza delle lettere dell’alfabeto – chiude il libro nel segno della disintegrazione (tautologica) del linguaggio. Ma se i personaggi vengono staccati dalla storia e rifunzionalizzati ad archetipi – o, detto in altre parole, vengono significati dalla storia e la significano a loro volta, al punto da potersi elevare a figure metastoriche – è evidente come essi possano anche alterare il tempo di cui sono figli, farsi anacronistici. Allora il Marx “metamorfico” potrà citare senza problemi «Giuseppe Pinelli», il «post-punk» e «Van Basten», De Sade potrà appellare il «dottor Freud», Nietzsche la «NASA».

Il secondo Opus di Caporossi, in conclusione, quando ribalta (ironizza) le vite esemplari, non lo fa solo sul piano provocatorio, bensì e soprattutto su quello ontologico: le vite e agiografie (non dimentichiamo Maria e Maddalena) prevedono anzitutto una storia, sono esemplarità in quanto avvenute – fisicamente o miticamente è secondario – mentre il conte di Caporossi assomiglia di più a una statistica di significati generabili da una certa vita-opera, disarcionata dalla sua storia, quindi irriducibilmente anacronistica, profetica e contaminatrice. Il Joker, personaggio senza storia, suggella questa prospettiva: di figure-simbolo che ribaltano ironicamente la storia e diventano archetipi.

Antonio Francesco Perozzi

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