Il silenzio dei giorni: una storia di ordinaria omofobia
L’Etna, maestosa e minacciosa, incombe sul paesino immaginario di Giramonte. La sua irruenza vulcanica è l’unica entità femminile che riesca a sottomettere gli uomini del paese, unici e incontrastati padroni di quello che accade fuori e dentro a quelle case. La metafora dell’uomo “padrone” dotato di smisurato potere – immagine mutuata dai latifondisti e proprietari terrieri di una Sicilia pre-risorgimentale che si adombra in una Giramonte tra il dopoguerra e gli anni settanta – si incarna nella piazza principale del paese descritto ne Il silenzio dei giorni (Ianieri Edizioni), romanzo d’esordio di Rosa Maria Di Natale.
I padroni della piazza
Tra le facciate di quelle abitazioni prospicienti la piazza esagonale, gli uomini esercitano un’autorità puramente maschilista, concedendo alle donne solo una passeggiata domenicale tra la chiesa e la pasticceria, e lasciando che i bambini vi giochino solo il sabato. Per il resto, i maschi sono protagonisti, fanno affari con gli agrumi, cercano manovalanza da impiegare alla giornata, contrattano, discutono, commentano i fatti del paese con la prospettiva miope di un maschilismo tossico ed esasperato, secondo il quale la virilità va ostentata a tutti i costi e le donne o sono caste o sono puttane. Solo l’Etna, questa immensa montagna che sbuffa cenere, fumo e lapilli infuocati come una matrona adirata, è in grado di far assumere agli uomini del paesino un tono dimesso e di farli aggirare con la schiena un po’ ricurva.
Un copione a cui si sfugge a caro prezzo
In questa atmosfera avvelenata dalla misogina, donne e figli sono proprietà del capofamiglia. Non c’è spazio per l’armonia e la diversità. I ruoli sono così ingessati nelle aspettative dei paesani che qualunque diversione diventa un pericolo, una minaccia per il buon nome e la tradizione della famiglia. Persino mandare a studiare un figlio nella vicina Catania – notoriamente intesa dai giramontesi come un luogo di perversione – è un’attività perniciosa, perché se nasci in una famiglia benestante tutti si aspettano che tu vada a sporcarti le mani nei terreni che in futuro riceverai in eredità. Questo è l’inflessibile copione appartenente alla sicilianità più arretrata, ed è un copione al quale si sfugge solo a caro prezzo.
Far luce sul passato
Di questo caro prezzo ne sa qualcosa Saverio, che pagherà col sangue le sue inclinazioni omosessuali, e ne sa qualcosa anche suo fratello Peppino, voce narrante del romanzo, trasferitosi a Milano per sfuggire all’oppressione di Giramonte. Da bambino gli era stato vietato di andare al mare, nonostante vivesse in un paese a soli quaranta chilometri dalla costa, perché ciò era visto come un’inutile trasgressione e una perdita di tempo tipica degli abitanti viziati della città. Il peso di un’infanzia nella quale viene negata la possibilità di giocare con la sabbia e di sentire la salsedine a Peppino precluderà anche la gioia del mare da adulto. Eppure, non sarà questo il peso più gravoso con cui Peppino dovrà fare i conti. Il compito più duro sarà quello di raccontare la vera storia del fratello ucciso, confidandosi con un giornalista per fare luce su quel fatto del passato, da sempre coperto di bugie e mistificazioni pur allontanare maldicenze e pettegolezzi.
La verità come dovere morale
Il silenzio dei giorni mostra il bisogno di verità come valore etico che l’autrice Di Natale ha certamente inseguito e che ancora insegue nella sua carriera di giornalista. Il tema – l’omosessualità come tabù in una terra arretrata e la conseguente violenza scatenata dall’omofobia – è certamente attuale, anche se l’idea per il romanzo si è liberamente ispirata a un fatto di cronaca, un delitto avvenuto a Giarre, in provincia di Catania, nel 1980 e che poi diede vita, l’anno successivo, alla prima festa nazionale dell’orgoglio omosessuale a Palermo.
Giuseppe Raudino