Che il carcere sia criminogeno lo sanno tutti ma lo dicono in pochi. Ci provò quasi cinquant’anni fa (era il 1971) Nanni Loy, che diresse uno straordinario Alberto Sordi in uno dei suoi rari ruoli drammatici e nei panni del geometra Di Noi si meritò l’Orso d’argento a Berlino nell’edizione del 1972. Detenuto in attesa di giudizio era il film, e la sua trama kafkiana ancor non ci abbandona.

Un’immagine del film Detenuto in attesa di giudizio

Benché la nostra Costituzione sancisca l’innocenza di chiunque fino al terzo grado di Appello, oggi ci sono ancora tanti, troppi detenuti in attesa di giudizio. Uno di loro, un diciottenne, è rimasto, nonostante gli spettasse il Minorile dove il regime è più morbido, a Regina Coeli per otto mesi. Otto mesi che, a contatto con la delinquenza incistata, gli son valsi l’entrata a pieno titolo nel mondo del crimine.

Urge una riforma del sistema penitenziario e della giustizia tout court. Una riforma che, parlando di carcere, elimini la burocrazia e, per esempio, preveda sgravi fiscali e abbattimento dell’Iva per quelle cooperative e imprenditori coraggiosi che fanno impresa assumendo e formando detenuti grazie alle pene alternative.

Già: è provato da uno studio del 2007 di Fabrizio Leonardi – l’ultimo in materia e forse non è un caso – che quanti erano usciti dal carcere nel 1998 sono poi rientrati in massa nei sette anni successivi per recidive, esattamente il 70%. Perché? Innanzitutto c’è da intendersi sul termine recidiva che conta solo quelli “pizzicati”, ma molti altri la fanno franca. Per tornare al perché, c’è da considerare l’altissimo tasso di analfabetismo tra la popolazione carceraria, tanto da rimandare a Victor Hugo quando scriveva: chi apre la porta di una scuola, chiude una prigione.

Proprio vero: nel caso di detenuti avviati a percorsi professionalizzanti, la recidiva praticamente si annulla ché la percentuale di ritorno al crimine tracolla al 2% rispetto al 70% di chi non ha questa chance. Al 31 agosto 2020 il totale dei detenuti è 53.921 a fronte di una capienza delle carceri di 50.574 unità, ed ecco che ci sono 3347 detenuti che causano il doloroso e famigerato sovraffollamento, di cui si parla poco, pochissimo, se non quando scoppia una rivolta.

Di questi 53.921 detenuti solo 2263 sono donne, la conferma del dato che il 95% della popolazione carceraria è maschile. Uomini che nella maggioranza dei casi sono capofamiglia, quindi fonte di sostentamento per moglie e figli. Uomini nella necessità di lavorare, o per non gravare sul già provato nucleo famigliare, o nella necessità d’inviare loro denaro. In più, ci sono le detestabili “spese di mantenimento”: ossia a un carcerato, quando esce di prigione, gli arriva l’esattore di Equitalia che richiede indietro i denari che lo Stato ha speso per lui in vitto e alloggio durante i mesi o anni di detenzione. Senza contare che un detenuto per mangiare decentemente, avere carta igienica (sic!) e per l’igiene personale, deve assolutamente guadagnare.

Ecco che si aprono due strade: o lavorare per l’amministrazione del carcere e beccarsi una “mercede” da 2 o 2,50 euro l’ora, leggermente aumentata grazie alla legge Orlando – e chi finisce in lavanderia, in cucina, a ramazzare, a fare la spesa o il piantone sono i più, circa 17.000 detenuti -, o essere avviati a un lavoro professionalizzante grazie alla legge Gozzini che lo prevede in caso di pena alternativa, e sono solo, a oggi, 2300 che ne beneficiano. Una possibilità che dovrebbe essere offerta a tutti nell’ottica di un carcere che sia riabilitante e non criminogeno appunto. Invece solo un terzo delle persone detenute hanno accesso al lavoro – un lavoro che nel caso dell’amministrazione carceraria primo non è professionalizzante, secondo instaura un rapporto evidentemente sbilanciato.

Con le pene alternative è tutto un altro discorso: entra in campo Economia carceraria che offre formazione e lavoro altamente qualificato, un percorso di liberazione tramite un contratto di lavoro che pone il liberando di fronte a obblighi, doveri e diritti. Lode dunque sperticata a quelle cooperative e a quegli imprenditori che in virtù della citata legge Gozzini possono entrare in carcere e impiantare delle vere e proprie fabbriche. Ecco che a Trani spunta un ghiotto tarallificio, a Palermo un pastificio e un biscottificio e a Vasto un birrificio, e percorrendo l’Italia da nord a sud è un virtuoso fiorire di imprese.

A Roma c’è, in Via dei Marsi, la sede di Semi (di) Libertà, una onlus che vuole fortissimamente lottare contro la recidiva, e grazie a Paolo Strano che ne è presidente e Oscar La Rosa direttore ha aperto ben tre laboratori, uno per imparare a fare sandali capresi che a vederli è una meraviglia, uno di pelletterie morbidissime e un altro di serigrafia. Se vi capita andate, è uno spazio includente e perciò accogliente per statuto: là potrete acquistare e gustare prodotti doc provenienti da tutta l’economia carceraria. Diamo, una volta tanto, un bel calcio nel didietro allo stigma, dimostriamo che tra il dire e il fare è una balla che ci sia il mare.

Monica Perozzi

Per eventuali contributi e donazioni
Associazione Semi Di Libertà Onlus
Iban IT97E0311103223000000006236
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