Il coprotagonismo del fiume in M. Michael Driessen

Argini e meandri, fiumi che cambiano la propria morfologia, vite che scelgono tra l’appassimento e il riscatto: nei tre racconti di Driessen, l’ambientazione perde il ruolo di sfondo e si trasforma in coprotagonista. Come per la poesia di Ungaretti, i fiumi diventano testimoni dell’età e dei mutamenti dell’individuo, compagni fedeli che non sanno comunicare se non attraverso le piene, la violenza, il colore o l’andamento placido. Nei tre racconti, il contatto con l’acqua è un’occasione per chiudere con i propri vizi, saturare la gioventù o risanare le faide familiari, senza alcun risultato garantito a priori. Per gli zatterieri di Il viaggio per la luna è fondamentale sapere da dove vengano, prima ancora di dove andranno: la rincorsa del successo è un’arma a doppio taglio, l’amicizia può essere un velo che nasconde verità e i tesori non sono davvero nostri, finché non li abbiamo riscattati.

Lo scrittore olandese, con un tono arcaico e realistico, prende con serietà i progetti e le movenze dei propri personaggi: si fa carico delle storie senza analizzarle, come fa un uomo che abbia accettato il proprio passato. A ogni finale, tuttavia, sembra osservare i protagonisti dall’alto, sollevato nel vederli finalmente andare.

Chiudere con il vizio

L’intellettuale di Tutto porta a niente, attore che vive di glorie passate e attaccamento alla bottiglia, sceglie il fiume per smettere di bere: è convinto di essere schiavo delle dipendenze ed è, in fondo, carceriere di se stesso. Sposta continuamente l’attenzione sul vissuto, ma nasconde un tintinnante vuoto che lo ossessiona: è incapace di far fronte alle sfide del presente o di apprezzarne i momenti placidi. Discendere il corso d’acqua è un’occasione per tornare ad arrangiarsi, un’impresa che richiede molta umiltà, ingrediente che cozza con l’arroganza e la violenza che reca in sé: alla partenza, è pieno di buoni propositi, punta a una idilliaca depurazione dall’alcol, tuttavia, le intenzioni cambiano e diventano più spietate col passare del tempo. L’avventura, per un uomo stigmatizzato dal vizio, è l’occasione per dirsi: «Non può andare avanti in questo modo. Devo fare delle scelte»: riuscirà davvero a seppellire la parte più infima di se stesso, quella più spietata che lo spinge a malmenare un’attrice, a odiare le circostanze, e ad allontanare gli affetti? La stessa natura nella quale cerca rifugio, è una matrigna che lo circonda di vacche impertinenti, che gli impedisce di dormire, spingendolo ad agire in maniera sconsiderata.

La mano dello scrittore, più lieve di quella del protagonista, non giustifica i mezzi e si limita a narrare.

Konrad e Julius

Driessen ha da poco affermato di prendere ispirazione da ciò che davvero conosce, attingendo a se stesso e alla realtà più vicina: ogni dettaglio superfluo, che servirebbe solo ad abbellire la prosa, è spesso tagliato fuori. Lo stesso accade con le emozioni dei personaggi, che vengono affrontate in maniera netta e concreta, senza ulteriori spiegazioni. Nel caso di Konrad e Julius, i due uomini rappresentano la fedeltà dell’amicizia, ma anche due modi di vivere non sempre conciliabili. La quasi castità del primo, che non affronta la conoscenza del femminile, è bilanciata dall’ambiguità dell’amico, che passa attraverso le esperienze più carnali: Konrad non soffre la solitudine, è abituato alle asperità del paesaggio e alle letture di Jules Verne, vive con la visione sfocata di una ragazza, mentre Julius ha un bisogno più evidente di essere amato, che emerge attraverso gli eventi. In entrambi i casi, l’attaccamento ai sogni è una leva, che gli permette di sollevare il mondo con le sue brutture. A un certo punto del racconto, come se tra i due uomini scorresse un ipotetico fiume, afferma il narratore: «Forse era questo a unirli: entrambi avevano qualcosa che li distingueva dagli altri. Ma quel qualcosa faceva sì che non si conoscessero a vicenda». Il viaggio, come la vita, è un percorso biforcato, vissuto da due punti di vista molto diversi: la vera mediatrice è l’acqua da solcare.

Pierre e Adèle

Per via della natura sinuosa e mutevole del fiume, che crea isolotti dove prima non c’erano e nasconde sepolcri inesplorati, Corbé e Chrétien si contendono il possesso delle terre ai lati del corso d’acqua. I primi ugonotti, i secondi cattolici, sono da tempo terrorizzati dall’idea di perdere una parte del terreno, favorendo l’avanzata dell’avversario. Non potendo ricorrere ai confini artificiali, possono solo affidarsi ai cambiamenti della natura e all’odio che covano. Con i nuovi eredi della tradizione, Pierre e Adèle, la faida prende una diversa connotazione, va verso un alleggerimento: nel loro caso, si può scorgere un’umanità diversa, degli aspetti psicologici che li rendono più profondi rispetto ai propri antenati. Lei è ingabbiata in un matrimonio che la svilisce e la strappa alla gioventù, costringendola a rifiutare la propria immagine nello specchio e a soffrire l’ipotesi di una gravidanza. «Rifuggiva la propria immagine perché non voleva vedere l’oggetto del desiderio di suo marito», scrive Driessen. Pierre, invece, è legato all’idea di una Divina Provvidenza, che lo segue ovunque per punirlo: la negazione del peccato, che lo spinge a non chiedere aiuto, lo rende zoppo e masochista. In entrambi i casi, la vita si prepara ad assestare ulteriori colpi: sarà il senso di protezione a ripagarli, la costanza con la quale difendono le cose buone che accadono.

La bellezza di Fiumi (edito Del Vecchio) ha un valore meno estetico di quello che possiamo immaginare: è la coesistenza di diverse visioni e priorità, tipica di luoghi aperti come i porti fluviali, a dare luce alla narrazione. Dove ci si aspetterebbe di trovare guerra e distruzione, spesso si incontrano nuove visioni, epifanie che è necessario saper apprezzare.

Rebecca Cicchetti

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