I racconti inafferrabili di Amilcar Bettega

Lasci la stanza com’è arriva dal Brasile in Italia grazie al lavoro di Del Vecchio editore e la traduzione di Daniele Petruccioli, l’autore è Amilcar Bettega, scrittore, traduttore e critico letterario.

Riferendosi a questa raccolta di racconti il giornalista Carlos Graieb afferma con entusiasmo: «cosa rara, si tratta di una narrazione senza alcun punto debole»; e sebbene l’entusiasmo di Graieb faccia pensare a qualcosa di perfetto e, forse, non condivisibile, una cosa è certa: questi sedici racconti sono cosa rara.

Il Brasile raccontato da Amilcar Bettega è osservato dal punto di vista della piccola cittadina dalle case basse e colorate di São Gabriel (che conta poco meno di duecento anime), e arriva al resto del mondo attraverso una lingua asciutta, essenziale, simbolica. I suoi racconti, infatti, da un lato conservano l’immediatezza della forma breve carveriana (chiamato in causa non per l’ovvio accostamento alla short stories, ma perché suggerito dallo stesso autore brasiliano in esergo) e dall’altro la componente onirica – fantastica, direi – ereditata dalla narrativa sudamericana. Sul piano linguistico e strutturale Lasci la stanza com’è si presenta come riuscita sintesi, quindi, tra le due letterature che meglio hanno saputo interpretare la forma racconto nel secolo scorso.

A questi modelli culturali Bettega accosta storie surreali e un uso misurato della lingua. Possiamo così incontrare città e case che cambiano forma a seconda della relazione che hanno con gli esseri umani che li circondano; uomini che vivono con un animale attaccato alle spalle; personaggi che corrono fino a desiderare di scoppiare, che combattono contro anonimi avversari, o che sfuggono alle loro responsabilità in qualsiasi modo possibile (è il caso di uno dei più dolorosi e poetici racconti della raccolta: Apprendistato).

In appendice Petruccioli, il traduttore, riflettendo sulle parole che possano meglio restituire in italiano il senso dei racconti di Bettega ci dice:

Il centro vero, dove la mano dell’artista è intervenuta con più sicurezza, è più nascosto. Si trova dietro le metafore di superficie. Sta nella ripetizione ossessiva di certe parole di passaggio, in certi giri sintattici che tornano. Parole come «quelli», «gli altri», «loro», «cani» e «bambini». Parole come «muro», «finestra», «porta», «portone», «cancello». Relative che avevo reso ingenuamente implicite, e invece devono martellare il lettore con i loro mille «che». Complementi di luogo con i loro avverbi e locuzioni: «davanti», «dietro», «di fronte», «in giro per». Sono tutte queste cose, questi segnali di vuoto, d’eco, di lontananza, a non dover sparire.

Queste cose, appunto, i segnali di vuoto, d’eco, di lontananza, permettono ai racconti di Lasci la stanza com’è di essere inafferrabili. Non è possibile uscire da questi racconti con una precisa interpretazione dei fatti narrati poiché la lingua e la composizione narratologica continuamente depistano il lettore spingendolo verso sfumature di senso sempre differenti. Un po’ come se, riportando alla nostra mente quel triangolo semiotico i cui vertici indicano il simbolo (es. la forma che rinvia a un contenuto), il significato (es. il contenuto) e il referente (es. l’entità, la realtà, la situazione extralinguistica a cui si fa riferimento), ci trovassimo a dover dividere nettamente le parti con l’autore: da un lato l’autore assume il pieno controllo di simboli e significati; dall’altro il lettore è totalmente affidato al referente. Da un lato, quindi, una scrittura orientata alla costruzione di movimenti narrativi surreali e opprimenti; dall’altro il lettore capace di orientarsi solo ed esclusivamente attraverso i propri riferimenti culturali. Un meccanismo, questo, alla base di ogni patto narrativo ma che, nel caso di Lascia la stanza com’è, sembra spingersi fino alle soluzioni più ardite.

Ecco quindi di cosa è fatta la cosa rara che a Graieb appare anche perfetta: di un linguaggio limpido e un senso inafferrabile. Di una raccolta di racconti piacevole da leggere, scritta con una lingua viva, fruibile; e dalla sensazione sempre più profonda, a mano a mano che si fidelizza con la scrittura del brasiliano, che lo scrittore ci stia rivelando un enorme segreto di cui, però, ci sfugge il senso.

Antonio Esposito

Antonio Esposito nasce a Napoli nel 1989. È laureato in Lettere e specializzato in Filologia moderna. Attualmente scrive racconti, pianifica romanzi e insegue progetti editoriali di vario genere. Da editor collabora con la casa editrice Alessandro Polidoro, dove dirige anche la collana dei Classici.

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