Martin Eden, dal libro al film

Martin Eden: Jack London, 1989; Pietro Marcello 2019.  Spesso quando ci troviamo a guardare un film tratto da un romanzo si cade in facili giudizi: ci sono incongruenze, è meglio il libro, e cose simili. Prima di lasciarci andare a simili constatazioni dobbiamo fare, forse, mente locale sulla storia e il messaggio che l’autore ha voluto trasmettere.

Chi è Martin Eden

Il personaggio protagonista di questo romanzo è Martin Eden, un marinaio presentato lungo tutto il racconto nel suo tratto principale: una vitalità e un’intelligenza ambiziosa che sfrutta in ogni modo per raggiungere quella sua unica meta, diventata a tratti ossessione: un obiettivo vitale di crescita conoscitiva, di affermazione sociale e di riconoscimento nel mondo borghese, inizialmente lontanissimo dalla sua condizione di rozzo marinaio. Questa sua ambizione di crescita sociale e di riconoscimento letterario non farà che offuscarlo e condurlo al finale tragico del suicidio, dopo che l’obiettivo d’amore e di affermazione pare in parte appagato.

Dopo lunghi anni e tanti sacrifici, Martin entra a far parte – ma soltanto in apparenza – di questo mondo borghese. È proprio questo mondo e questa sua lunga lotta a metterlo di fronte alla perdita, irrecuperabile, della sua identità, e si rovescia così il discorso narrativo nell’oggetto di un disprezzo e di una indifferenza mortale. Martin non capisce, non riconosce il senso del rovesciamento della sua vita che ‘gli accade’. Finisce per agire contro il sé stesso costruito, diventato ormai colto grazie al sapere faticosamente acquisito. Ormai maturo, riconosciuto e sicuro del suo linguaggio, inizia a scrivere animato da una nuova ambizione: il successo. Forse non è nemmeno una nuova ambizione, in quanto ha dominato occultamente l’anima di Martin sin dall’inizio. Ma l’anima delusa non si recupera, e non si sana con il raggiungimento del successo, anzi, turba la fragile felicità del giovane scrittore.

Il successo e la caduta

Il romanzo di Jack London e il film di Pietro Marcello raccontano la storia della forza vitale di Martin che, spinto dall’amore profondamente ricambiato di Ruth Morse – figlia della borghesia, della cultura, figlia di tutto ciò che egli non era ma vuole ardentemente diventare – arriva a una delusione mortale verso ciò che non è più, e che non tornerà ad essere. La sua inevitabile caduta mortale avviene, mentre il mondo del capitalismo editoriale borghese continua a scorrere, un mondo che non se ne accorge, che non resta toccato da questa perdita. Un mondo di interessi e infatuazioni commerciali, una vita che ha tradito se stessa perché ha voluto spasmodicamente tradursi in ciò in cui mai avrebbe potuto.

Martin Eden è la parabola di un giovane scrittore, fregato dalla sua stessa vita che riprende improvvisamente il suo cammino imponendosi negli insuccessi letterari, nel prefigurarsi in quel modo che, forse, Martin aveva messo in conto prima ancora di iniziare un percorso che l’avrebbe distrutto, o meglio portato ad autodistruggersi. È questa, mi pare, la chiave del libro e del film, quella con cui Jack London delinea la storia di Martin e del mondo del consumo capitalistico della scrittura, della borghesia, quel mondo che diviene infine disperatamente il suo. Questa intuizione non scompare mai nel libro, così come nel film si mantiene viva e mantiene lo spettatore in uno stato di allerta e di ansia verso il prossimo passo.

Martin Eden è un uomo che aspetta il riconoscimento del mondo delle lettere e la ricchezza che questo comporta, ma quando il successo arriva porta con sé, inevitabilmente, una traccia di coscienza: il mondo delle lettere lo sfrutta, lo usa; questo sentimento assale sempre più Martin che rifiuta di entrare a far parte di certi meccanismi e rivendica il suo essere vitale che lo porterà verso l’inutile fuga da sé stesso: dissipazione suicidaria, finale di una vita ormai spenta.

I transfer spaziotemporali

Adattare Martin Eden come ha fatto Pietro Marcello resta un azzardo ancora poco chiarito. Il film sradica la storia dal proprio contesto per ricontestualizzarla in una Italia, o meglio in una Napoli di non si sa quando, fuori dal tempo, priva di punti di ancoraggio e di stili definiti. Televisori da boom economico sono affiancati ad abiti da primo Novecento, truppe fasciste appaiono dopo che il protagonista cammina per strada accanto a persone vestite come nel nostro presente. Ci sono tutte le epoche del Novecento italiano insieme, mescolate, che creano un non-tempo – la scelta più difficile forse da portare avanti, più consapevole e più fastidiosa per gli spettatori; un non-tempo che mostra in tutta evidenza la forza della storia sempre uguale del nostro paese, caratterizzato dai medesimi atteggiamenti, cent’anni fa come oggi.

Si incrociano nella parte iniziale immagini di repertorio che si immergono nel girato attuale con disinvoltura, ma il rischio è che questa struttura possa stancare e confondere. È nella seconda parte del film che infatti il regista si sofferma di più sul protagonista. Quella di Luca Marinelli (Martin Eden) è stata un’ottima scelta, ha una presenza dolce e magnetica dall’inizio alla fine. Marcello su di lui preferisce un lavoro sull’espressione particolare, procedendo per dettagli invece che per visione complessiva. Non è una scelta da poco e infatti il suo Martin colpisce fin dalla prima inquadratura, con una presenza magnetica, un gigante, rozzo e goffo, timido e vivace.

Immediatamente capiamo che quest’uomo sta cercando la sua strada e troverà il suo sbocco. Alle volte vediamo il mondo con i suoi occhi e tornano le immagini di repertorio, altre volte ci sono degli stacchi di paesaggi, di navi che affondano o di uomini d’altri tempi che sorridono. Sono i pensieri di Martin, i desideri di Martin o il mondo di Martin, affascinato dalla cultura borghese ma sempre più disgustato da essa a mano a mano che la raggiunge.

La sensazione che lascia il film è che rinunci a tutto ciò da un certo punto in poi, e probabilmente è questo che gli impedisce la piena grandezza e fa sì che si sviluppino commenti confusi, da parte di spettatori che non hanno ben inquadrato il periodo, che sono arrivati a percepire solo le storture e le diversità rispetto al romanzo ma non hanno ben afferrato l’intento di Pietro Marcello, che forse avrebbe dovuto continuare ad osare fino all’ultimo.

Anna Chiara Stellato

Giovane napoletana laureata in lettere, da sempre innamorata della sua città, del dialetto e della storia di Napoli. Lettrice compulsiva, appassionata di cinema d’autore e di serie tv. Sorrido spesso, parlo poco e non amo chi urla.

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