The Post, il film che in Italia non potremmo mai fare

the-post-filmKatherine Graham stringe a sé un cuscino, tiene la collana tra le dita o si porta le mani alla bocca. Ascolta, pensa, esita. La camera la inquadra a destra e a sinistra, in una sorta di campo-controcampo con sé stessa, per restituirci tutta la sua indecisione: pubblicare o non pubblicare? Restare fedele ai lettori e agli ideali del giornale o agire con cautela nei confronti dei suoi investitori e del governo?

Le decisioni registiche, qui, sono quelle di Steven Spielberg, Katherine Graham è interpretata da Meryl Streep e il giornale è il Washington Post. Il film invece, inutile a dirlo, è The Post, e racconta di quel delicato momento in cui, nel 1971, l’editrice e il direttore del quotidiano Ben Bradlee (Tom Hanks) decisero di dare alle stampe il contenuto dei Pentagon Papers, i documenti che rivelavano l’implicazione degli ultimi cinque presidenti USA in una guerra che sapevano di non poter vincere. In barba alle minacce della Casa Bianca, la nazione doveva sapere che i suoi figli andavano a morire inutilmente nel Vietnam.

Questo è il plot, in poche parole, e questa è la Storia. Da un punto di vista narrativo, non c’è nulla che manchi nel film del regista settantaduenne: la suspense e la trepidazione dell’indagine, l’evoluzione di un personaggio al timone di una nave di soli uomini, il respiro di una materia storica con implicazioni collettive e altamente emozionali – checché si possa preferire che avesse dato più enfasi all’uno o all’altro aspetto, ma è questione di gusti. Due le nomination agli Oscar, per il film e l’attrice protagonista: non sono le sei ottenute ai Golden Globe, ma sono pur sempre motivo di orgoglio. Insomma, prestigiose, ma neanche troppo: le altre opere candidate per il premio principale hanno avuto almeno quattro nomination ciascuna. È anche insolito, del resto, che uno dei migliori film dell’anno – stando a sentire gli addetti ai lavori – si fermi a quota due nomination. Chi scrive ha qualche perplessità, e uscito dalla sala non può fare altro che continuare a rifletterci. Certo che The Post non avrebbe vinto, e infatti così è stato.

mlk-1965-selma-montgomery-march-pViene in mente un caso analogo di appena due anni fa, quando Selma – La strada per la libertà era in lizza agli Oscar per il Miglior film e la Miglior canzone (vincendo quest’ultima) eppure, possiamo dirlo francamente, non era affatto un filmone. Il sottoscritto non ha potuto fare a meno di interrogarsi sulla natura del clamore riservato a The Post, avanzando l’ipotesi che si tratti di uno di quei casi in cui un buon film viene percepito come un film eccellente. Sta’ a vedere che ci entusiasmiamo di più per i fatti, realmente accaduti, di privazione della libertà o di crisi dei diritti umani e civili. Vale a dire più di quanto i meriti artistici dell’opera non concedano di gridare al capolavoro. E se così fosse, allora non è escluso che gli americani si entusiasmino un tantino più di quanto non faccia questo popolo di santi, poeti e navigatori.

Ma quando è stata l’ultima volta che anche noi abbiamo provato a raccontare in un film il mondo del giornalismo televisivo o della carta stampata, che abbiamo provato a oltrepassare la soglia del biopic e le atmosfere tragiche degli ultimi giorni di Giancarlo Siani o di Ilaria Alpi? Dall’altro lato dell’oceano producono regolarmente film di satira e di denuncia, sotto forma di commedia o di resoconto storico, ambientati dentro e fuori le redazioni, davanti alle telecamere o ai microfoni di un notiziario del mattino; da questo punto di vista, The Post è al capo estremo di un filo che va fino a Tutti gli uomini del presidente, passando per Il caso Spotlight, Good Night, and Good Luck. e Cronisti d’assalto, dove Lo sciacallo – Nightcrawler è un’altra faccia della stessa medaglia di Diritto di cronaca.

polmovies_allthepresidentsmenSì, agli americani sta a cuore la libertà d’informazione, a loro che negli anni Settanta rischiarono che un bavaglio tappasse la bocca del New York Times con conseguenze che possiamo soltanto immaginare per il giornalismo dei decenni a venire. Non solo: da Ron Burgundy a Peter Brackett, il cinema a stelle e strisce ci insegna che, come il backstage di un allestimento teatrale o la messa in scena di un programma tv, il dietro-le-quinte della cronaca d’informazione può essere altrettanto eccentrico e affascinante, e i personaggi che danno forma alle notizie possono avere temperamenti bizzarri e animare rivalità da palcoscenico che varrebbe la pena raccontare. Tanto più adesso, tanto più in quest’America. Un presidente degli Stati Uniti che tiranneggia sugli organi di informazione e impone all’opinione pubblica una versione distorta della verità potrebbe essere roba di ieri come di oggi, e non c’è bisogno che vi spieghiamo le analogie col presente o perché non ci sembra un caso che Spielberg abbia raccontato questa storia proprio nel 2017.

Certamente non si può parlare, invece, di corrispondenze col nostro belpaese. Avete presente quella scena in cui, sul finale, una folla di lettori e comuni cittadini si accalca alle porte del tribunale per conoscere l’esito della sentenza? Sembra indubbio che una cosa del genere possa accadere anche da noi, ieri come oggi, appunto. Ciò che pare profondamente lontano dal nostro (mal)costume è l’ipotesi di una sensibilità così largamente diffusa verso il rischio di una repressione della libertà d’informazione.

post10Di ritorno verso casa, il sottoscritto continuava a chiedersi cosa sarebbe successo, per esempio, se un capo di stato avesse estromesso dei giornalisti da un’emittente pubblica, o se una serie di cronisti, negli stessi anni della vicenda del Washington Post, avesse dato del filo da torcere alla malavita. Ci saremmo forse spaventati e indignati, e fino a che punto? E se a un direttore di un settimanale avessero impedito di fare umorismo su un’alta carica dello stato, o una trasmissione televisiva avesse rischiato la chiusura per aver proposto indagini scomode? Dite che ne conserveremmo almeno il ricordo, e ci commuoveremmo solo a pensarci, come e più degli americani?

Forse no, o forse tutto questo non è mai successo. Forse si sbaglia Reporters sans Frontiers quando dice che in Italia «i giornalisti si sentono sotto pressione da parte dei politici e sempre più spesso scelgono di autocensurarsi». Che ne sanno, loro. Però sarebbe bello se la macchina da presa, ogni tanto, si aggirasse tra i corridoi di una redazione e registrasse, un po’ per gioco, e un po’ sul serio, il sudore, le manie e le idiosincrasie di chi, per noi, confeziona ogni giorno le notizie con cui impariamo a guardare il mondo.

Andrea Vitale

 

Andrea Vitale nasce a Napoli nel 1990. Frequenta il liceo classico A. Genovesi, e nel 2016 si laurea in Filologia moderna alla Federico II. Ama la musica e la nobile arte dei telefilm, ma il cinema è la sua vera passione. Qualunque cosa verrà in futuro, spera ci sia un film di mezzo. Magari, in giro per il mondo. Attualmente frequenta un Master in Cinema e Televisione.

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