L’addio di Antonio Moresco: viaggio nichilistico tra la città dei vivi e quella dei morti

D’Arco è uno sbirro morto che naviga nell’oblio del suo ufficio disordinato e sporco, nell’oceano di una città sterminata buia e grigia.

La città in cui vive è la città dei morti, invasa a frotte da uomini e donne e bambini appena uccisi; ce ne sono talmente tanti che un amico dell’ispettore si chiede come ci possano essere così «tanti cazzi morti per quel mare di fiche morte».

Non è necrofila; i morti vivono come i vivi con il dettaglio non indifferente di essere morti, in un grigiore artificiale che sembra sublimarsi a grigiore esistenziale.

La pedofilia invece è vera, drammaticamente vera, tanto che D’Arco è incaricato dall’elegante e misterioso Laszlo di scoprire per quale motivo «le vocine cantino tutta la notte sui tetti dei grattacieli.»

Suo malgrado è coartato a tornare nella città dei vivi, accompagnato da un bambino che non sa il suo nome, con il cranio rasato e gli occhi spalancati e una collana di filo spinato attorno al collo, verso una missione suicida e senza speranza.

Moresco è un autore atipico come si può facilmente evincere dalla prefazione, in cui asserisce che «essere uno scrittore non è per me uno status. Uno scrittore può ritenere a un certo punto della sua vita di aver concluso la sua missione e desiderare di continuare a sentirsi libero e solo di fronte all’avventura e all’ignoto.»

Proprio qui sta il senso del romanzo, di personaggi che nemmeno da morti sono liberi, prima imprigionati nella città dei vivi e ora in quelle dei morti e nel futuro non si sa, perché nella mente di Moresco non è chiaro cosa viene prima e cosa viene dopo. L’ispettore D’Arco è il faro d’Alessandria di questo sterminato esercito di prigionieri, è l’imprigionato per eccellenza, colui che non può scegliere, sebbene il misterioso Laslzo lo illuda di farlo.

E’ palese per coloro che hanno anche solo letto gli Incendiati, essendo i Giochi dell’Eternità un opus magnum degno della sezione proibita della Biblioteca di Hogwarts,  che Moresco sia un pastore che inganna le sue pecore; quando egli asserisce in una delle tante riflessioni estemporanee di non volersi addentrare nell’orrore, un lettore non contingente sa bene che mente. Ci gode a mentire.

Ci sono i gemelli che squarciano le loro vittime, assassini che nuotano nel sangue, il ballerino che balla sui cadaveri, le mamme che uccidono i figli.

E’ un mondo orrendamente truce, deturpato, dove gli innocenti vengono letteralmente divorati da  mostri che sembrano emanare un candore tale da fare quasi pietà; l’allegoria è forte, potente, sembra una rappresentazione su carta del Saturno che uccide i suoi figli del pittore spagnolo Francisco Goya. Lì c’era l’invidia, qui l’ingordigia; gli assassini di Moresco sono mossi da una necessità che divora il libero arbitrio e che divora ogni cosa, non lasciando spazio alcuni ai suoi figli.

E gli assassini suscitano prima schifo, poi sdegno e infine pietà perché non possono fare altrimenti, possono solo aspettare un Zarathustra che li uccida e gli stermini, portandoli dall’altra parte.

Leggere Moresco ricorda un po’ anche “Senza Scampo”, quella poesia di les “Fleurs du mal” di Baudelaire in cui il poeta scende un numero infinito di scale addentrandosi sempre di più nel buio della vita.

 

Leggere l’Addio è una cupa discesa negli inferi, in un mondo dove non esiste speranza e dove tutto è caotico, dove le domande esistenziali afferrano D’Arco senza lasciargli pace, ammorbandolo e devastandolo dall’interno, fino alla rivelazione finale in stile Fight Club: “tu sei diventato grande perché io sono stato ucciso da bambino, e io sono un bambino solo perché tu sei stato ucciso da grande. Perché io sono morto per far vivere te e tu sei morto per fare vivere me.”

Nulla è chiaro, nulla è delineato, anche la triade di dogmi nascere-vivere-morire è messa in dubbio con forza, in un pessimismo cosmico che fa impallidire il poeta di Recanati.

Quelle vocine che cantano dall’alba dei tempi, e non smetteranno nemmeno alla fine, sembrano sussurrare il monito di uno dei tanti assassini che infestano le pagine maledette di Moresco: “perché i bambini  vengono lasciati diventare grandi e uccidono poi altri bambini?”

Quel vecchio sembra tanto ricordare Emil Cioran.

Michel Simion

Nato a Verona, mi sono laureato in Giurisprudenza a 24 anni. Romanziere in erba, adoro scrivere, portare a spasso il mio cane, nei luoghi bui e misteriosi, e guardare film. Tento ancora di capire quale sia il mio film preferito. Sul libro, invece, non ho mezzo dubbio: Norwegian Wood.

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