Come la sequenza iniziale dell’episodio 3, che sintetizza, attraverso un montaggio intermittente ed una fotografia straniante, il procedere degli eventi tipico del sogno – o meglio, dell’incubo. O come l’episodio 8, un vero e proprio mediometraggio in bianco e nero sulla “nascita” del Male, di uno sperimentalismo metafisico del tutto anti-televisivo. Ma non mancano anche scene comiche e grottesche al limite del fastidio, come quelle con Dougie Jones e i fratelli Mitchum o quelle con Audrey (uno dei misteri che rimarrà clamorosamente irrisolto). Al centro, ovviamente, il protagonista indiscusso, Kyle MacLachlan, che interpreta tre ruoli distinti con una bravura ineguagliabile: Dougie Jones, Mr C. – il dopplegänger posseduto da Bob – e il solito agente Dale Cooper. Il tutto condito da effetti speciali che, visti in una qualsiasi altra serie tv, genererebbero irritazione per la loro mancanza di modernità, ma che nel lavoro evocativo di Lynch contribuiscono a creare quel necessario senso di smarrimento che da sempre caratterizza la sua produzione. Anche le musiche, il cui sound design è stato curato dallo stesso regista, si eclissano quasi totalmente dalla scena, riservando ai credits di ogni episodio inverosimili performance sul palco del Bang Bang Bar – un espediente, peraltro, che ha offerto una prestigiosa vetrina ad artisti non propriamente mainstream.
In un’epoca come questa di binge watching, in cui le piattaforme di streaming e di video on demand hanno completamente stravolto il panorama della serialità e mutato il ruolo dello spettatore, Lynch è riuscito ad appropriarsi del medium televisivo, portando il surrealismo nelle case delle famiglie e dei cittadini medi come non hanno avuto modo di fare artisti quali Salvador Dalì e Luis Buñuel, veicolato da un linguaggio completamente inedito, fatto di tempi morti, gesti esasperatamente lenti, attese senza esito e discorsi su personaggi che non conosceremo mai. E se è pur vero che senza Twin Peaks non sarebbe stata possibile buona parte della produzione seriale odierna – come dichiarato a più riprese da Damon Lideloff e J.J. Abrams – ancora oggi l’opera del genio del Montana si pone come un caso isolato nel panorama televisivo. Forse una simile modalità di raccontare il mistero e l’irrazionale nella storia della tv può essere rintracciata nel telefilm di Rod Serling degli anni ’50 – decennio più volte citato da Lynch – Ai confini della realtà. Ma ciò che differenzia Twin Peaks – The Return da tutti gli altri prodotti è la sua capacità di far immergere lo spettatore nel misterioso mondo dell’inconscio dominato da un’architettura visionaria nella quale i rapporti di causa ed effetto
La scena finale è l’urlo straziante di quella che in un altro tempo, in un altro luogo, in un’altra dimensione (forse) fu Laura Palmer. Quale è la realtà e qual è il sogno? Ma soprattutto, chi è il sognatore? Sono domande alle quali non avremo mai una risposta. Almeno non nel senso più classico del termine. In fondo non c’è da stupirsi se, all’alba dei 70 anni, Lynch abbia avvertito il bisogno di compiacere il pubblico ancora meno di quanto abbia fatto nel corso della sua carriera. Nel libro In acque profonde. Meditazione e creatività esprimeva così il suo punto di vista:
Talvolta le persone dicono di fare una certa fatica a capire un film, ma penso che in realtà capiscano molto più di quanto si rendano conto. Perché abbiamo tutti ricevuto il dono dell’intuito: possediamo davvero il talento di intuire le cose.
La comprensione, allora, degli enigmi disseminati all’interno di quello che con ogni probabilità sarà il capitolo conclusivo della saga richiede uno sforzo profondo, un’immersione totale in quell’oceano sconfinato di coscienza che è in ognuno di noi e che trascende il tempo, lo spazio e la vita stessa. Dopotutto, come recita il Manifesto del surrealismo, «le soluzioni immaginarie sono il vivere e il cessare di vivere. L’esistenza è altrove».
Valerio Ferrara
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