Twin Peaks – The Return. La consacrazione del surrealismo sul piccolo schermo

twinpeaks25yearsCi risiamo, è successo di nuovo. C’è voluto un quarto di secolo, ma alla fine l’attesa ha pagato. Laura Palmer ha mantenuto la promessa. «Ci rivedremo tra venticinque anni» era la frase sussurrata all’agente Cooper nell’episodio finale della season 2 di Twin Peaks, la serie cult degli anni ’90 firmata David Lynch e Mark Frost. Presentato in anteprima alla 70esima edizione del Festival di Cannes, l’universo misterioso e conturbante della cittadina dai picchi gemelli è apparso nuovamente sul piccolo schermo, ospitato dalla piattaforma via cavo Showtime. Questa volta, però, Lynch ha voluto fare sul serio. Seppur avvalendosi della collaborazione del fidato Frost per la scrittura dello screenplay, il cineasta di Missoula ha diretto interamente la nuova stagione della serie, finalmente libero dalle intromissioni di quell’emittente pubblica – l’ABC – che nelle due stagioni precedenti aveva non soltanto imposto di svelare l’identità dell’assassino di Laura Palmer, ma aveva addirittura affidato la regia di alcuni episodi ad ospiti esterni (Udi Edel, Stephen Gyllenhaal e Diane Keaton, tra i più noti), compromettendo così le scelte stilistiche più audaci adottate fino a quel momento dai due showrunner.

vlcsnap-2017-06-21-16h21m18s539-2Il risultato è un’opera svincolata dalle logiche del revival commerciale, un vero e proprio lungometraggio a sé stante, della durata di 18 ore e diviso in 18 parti. Fin dal primo spiazzante episodio, infatti, risulta evidente come Lynch abbia voluto manipolare la sua stessa creatura, estremizzandone i contenuti e rendendola ancora più astratta e indecifrabile. Attraverso un’operazione di frammentazione spaziale, il regista accompagna per la prima volta lo spettatore lontano dall’amata Twin Peaks per condurlo a New York, a Las Vegas, nel South Dakota, spingendosi fino in Argentina, a Buenos Aires. Persino la famosissima sigla, con i dettagli della segheria Packard in azione, è sostituita da carrellate vertiginose di acque che scorrono e riprese psichedeliche di pavimenti geometrici che si deformano. La narrazione si apre in medias res, seguendo un percorso quasi speculare rispetto a quello delle passate stagioni: partendo da diverse sottotrame apparentemente slegate, che alternano personaggi nuovi a vecchie conoscenze, le vicende finiscono per convergere tutte verso il fulcro: Twin Peaks e Laura Palmer. Un cammino che pullula di momenti onirici e tipicamente “lynchiani”.

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Come la sequenza iniziale dell’episodio 3, che sintetizza, attraverso un montaggio intermittente ed una fotografia straniante, il procedere degli eventi tipico del sogno – o meglio, dell’incubo. O come l’episodio 8, un vero e proprio mediometraggio in bianco e nero sulla “nascita” del Male, di uno sperimentalismo metafisico del tutto anti-televisivo. Ma non mancano anche scene comiche e grottesche al limite del fastidio, come quelle con Dougie Jones e i fratelli Mitchum o quelle con Audrey (uno dei misteri che rimarrà clamorosamente irrisolto). Al centro, ovviamente, il protagonista indiscusso, Kyle MacLachlan, che interpreta tre ruoli distinti con una bravura ineguagliabile: Dougie Jones, Mr C. – il dopplegänger posseduto da Bob – e il solito agente Dale Cooper. Il tutto condito da effetti speciali che, visti in una qualsiasi altra serie tv, genererebbero irritazione per la loro mancanza di modernità, ma che nel lavoro evocativo di Lynch contribuiscono a creare quel necessario senso di smarrimento che da sempre caratterizza la sua produzione. Anche le musiche, il cui sound design è stato curato dallo stesso regista, si eclissano quasi totalmente dalla scena, riservando ai credits di ogni episodio inverosimili performance sul palco del Bang Bang Bar – un espediente, peraltro, che ha offerto una prestigiosa vetrina ad artisti non propriamente mainstream.

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In un’epoca come questa di binge watching, in cui le piattaforme di streaming e di video on demand hanno completamente stravolto il panorama della serialità e mutato il ruolo dello spettatore, Lynch è riuscito ad appropriarsi del medium televisivo, portando il surrealismo nelle case delle famiglie e dei cittadini medi come non hanno avuto modo di fare artisti quali Salvador Dalì e Luis Buñuel, veicolato da un linguaggio completamente inedito, fatto di tempi morti, gesti esasperatamente lenti, attese senza esito e discorsi su personaggi che non conosceremo mai. E se è pur vero che senza Twin Peaks non sarebbe stata possibile buona parte della produzione seriale odierna – come dichiarato a più riprese da Damon Lideloff e J.J. Abrams – ancora oggi l’opera del genio del Montana si pone come un caso isolato nel panorama televisivo. Forse una simile modalità di raccontare il mistero e l’irrazionale nella storia della tv può essere rintracciata nel telefilm di Rod Serling degli anni ’50 – decennio più volte citato da Lynch – Ai confini della realtà. Ma ciò che differenzia Twin Peaks – The Return da tutti gli altri prodotti è la sua capacità di far immergere lo spettatore nel misterioso mondo dell’inconscio dominato da un’architettura visionaria nella quale i rapporti di causa ed effetto twinpeaks-17-jeffries-1024x576si sovrappongono, si confondono, si inseguono e le lancette dell’orologio si muovono avanti e indietro senza alcuna apparente ragione.  Non importa capire se «questo è il futuro o è il passato», non fa alcuna differenza. Il tempo lynchiano non è una linea retta ma si ripiega su se stesso, come l’otto prodotto dallo spirito di Phillip Jeffries, simile ad un nastro di Möbius sul quale Cooper scorre nella speranza di modificare il passato.

La scena finale è l’urlo straziante di quella che in un altro tempo, in un altro luogo, in un’altra dimensione (forse) fu Laura Palmer. Quale è la realtà e qual è il sogno? Ma soprattutto, chi è il sognatore? Sono domande alle quali non avremo mai una risposta. Almeno non nel senso più classico del termine. In fondo non c’è da stupirsi se, all’alba dei 70 anni, Lynch abbia avvertito il bisogno di compiacere il pubblico ancora meno di quanto abbia fatto nel corso della sua carriera. Nel libro In acque profonde. Meditazione e creatività esprimeva così il suo punto di vista:

Talvolta le persone dicono di fare una certa fatica a capire un film, ma penso che in realtà capiscano molto più di quanto si rendano conto. Perché abbiamo tutti ricevuto il dono dell’intuito: possediamo davvero il talento di intuire le cose.

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La comprensione, allora, degli enigmi disseminati all’interno di quello che con ogni probabilità sarà il capitolo conclusivo della saga richiede uno sforzo profondo, un’immersione totale in quell’oceano sconfinato di coscienza che è in ognuno di noi e che trascende il tempo, lo spazio e la vita stessa. Dopotutto, come recita il Manifesto del surrealismo, «le soluzioni immaginarie sono il vivere e il cessare di vivere. L’esistenza è altrove».

Valerio Ferrara

Valerio Ferrara nasce a Napoli nel 1990. Dopo aver conseguito il diploma classico, frequenta la facoltà di Economia, maturando in seguito la decisione di abbandonare questo percorso e intraprendere gli studi umanistici presso il dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli studi di Napoli Federico II, dove consegue la laurea in Sociologia, presentando una tesi in Sociologia dei processi culturali e comunicativi. La sua più grande passione è il cinema, con una spiccata predilezione per quello d’autore. Amante della musica sin dall’infanzia, è stato membro dei Black on Maroon, una band alternative rock partenopea. Dal 2016 è redattore della rivista Grado Zero.

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