E se i baby-boss che hanno attuato la «rottamazione» dei vecchi esponenti del clan sono stati portati alla ribalta dell’opinione pubblica dall’ultimo romanzo di Roberto Saviano – “La paranza dei bambini” per l’appunto –, con il docu-film del giornalista e conduttore televisivo Michele Santoro “Robinù”, i loro volti sono stati proiettati per la prima volta sul grande schermo, senza filtri o mediazioni. Prendendo le mosse dalle storie di alcune famiglie coinvolte nella guerra tra gli eredi del clan Giuliano e il clan Sibillo, il regista campano è entrato nel carcere partenopeo di Poggioreale e nell’Istituto penale minorile di Airola, in provincia di Benevento, per dare voce a quei ragazzi che “a quindici anni imparano a sparare, a vent’anni sono dei killer e a trenta non ci arrivano”. Ragazzi molto spesso minorenni, animati da un unico grande sogno: potersi realizzare in poco tempo secondo la logica del “tutto e subito”, mostrando sprezzo del pericolo e della morte, apparendo in questo non molto diversi dai loro coetanei di Rio de Janeiro o di Acapulco, o dai giovani jihadisti dell’ISIS, dai quali hanno ereditato – su un piano puramente esteriore, non certo ideologico o religioso – modelli e stili di comportamento. Basti pensare al boss “barbuto” di Forcella ammazzato a diciannove anni, Emanuele Sibillo, osannato dai ragazzi del quartiere come l’eroe dei vicoli e venerato quasi come un santo sull’altare che la sua famiglia ha eretto nell’androne del palazzo in cui abitava.
L’unico barlume di speranza Santoro pare individuarlo proprio nella famiglia di Michele, in quel fratello pizzaiolo emigrato in Francia per sfuggire ad un destino di illegalità apparentemente già scritto. Il prezzo da pagare, però, è molto alto: un cassonetto dell’immondizia sul lungosenna come prima “casa”, una panchina condivisa con un altro senzatetto maghrebino e il dolore lacerante di non poter trascorrere le festività insieme ai cari. E non è certamente un caso che sia proprio a Parigi che compaiano sulla scena per la prima ed unica volta le forze dell’ordine, intente a reprimere un corteo di giovani manifestanti.
Ma Robinù è anche (e soprattutto) un manifesto di denuncia in grado di fornire un’immagine di questi ragazzi decisamente distante dalla visione unilaterale restituita dalla fiction, nella quale è stata mostrata fino ad oggi soltanto la maschera della sconcertante efferatezza che anima le loro azioni, occultando quella capacità sentimentale di guardare alla vita che li spinge a diventare genitori a quindici anni e nonni intorno ai trenta. Una capacità di affrontare con coraggio l’esistenza che non viene mai intercettata dalle istituzioni, le quali rispondono all’emergenza sociale soltanto con l’esercito – ridotto ormai a mero elemento di “arredo urbanistico” – e voltano deliberatamente lo sguardo dall’altra parte.
Valerio Ferrara
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