Robinù e la paranza dei bambini

054503464-6e22a2fe-699b-43fa-84e3-819b861acc32Il termine paranza viene dal mare. Chi nasce in una città come Napoli lo sa bene. Paranza è il nome delle barche che di notte escono e vanno a caccia di pesci piccoli, i quali, attratti dalle luci intense delle lampare, si staccano dal fondale e salgono in superficie, venendo così intrappolati nelle reti dei pescatori. Ma chi nasce a Napoli sa bene che con il termine paranza si può indicare anche qualcos’altro. Nel gergo camorristico, infatti, la paranza si riferisce ad un gruppo militare, alla batteria di fuoco di un clan. E lo sanno bene anche Woodcock e De Falco, i pm della Dda che hanno condotto l’inchiesta sulla nuova organizzazione camorristica costituita da bande di adolescenti che si combattono nei vicoli del centro storico a colpi di kalashnikov – un fenomeno criminale battezzato con l’espressione “paranza dei bambini”.

michele-santoro-blogo

E se i baby-boss che hanno attuato la «rottamazione» dei vecchi esponenti del clan sono stati portati alla ribalta dell’opinione pubblica dall’ultimo romanzo di Roberto Saviano – “La paranza dei bambini” per l’appunto –, con il docu-film del giornalista e conduttore televisivo Michele Santoro “Robinù”, i loro volti sono stati proiettati per la prima volta sul grande schermo, senza filtri o mediazioni. Prendendo le mosse dalle storie di alcune famiglie coinvolte nella guerra tra gli eredi del clan Giuliano e il clan Sibillo, il regista campano è entrato nel carcere partenopeo di Poggioreale e nell’Istituto penale minorile di Airola, in provincia di Benevento, per dare voce a quei ragazzi che “a quindici anni imparano a sparare, a vent’anni sono dei killer e a trenta non ci arrivano”. Ragazzi molto spesso minorenni, animati da un unico grande sogno: potersi realizzare in poco tempo secondo la logica del “tutto e subito”, mostrando sprezzo del pericolo e della morte, apparendo in questo non molto diversi dai loro coetanei di Rio de Janeiro o di Acapulco, o dai giovani jihadisti dell’ISIS, dai quali hanno ereditato – su un piano puramente esteriore, non certo ideologico o religioso – modelli e stili di comportamento. Basti pensare al boss “barbuto” di Forcella ammazzato a diciannove anni, Emanuele Sibillo, osannato dai ragazzi del quartiere come l’eroe dei vicoli e venerato quasi come un santo sull’altare che la sua famiglia ha eretto nell’androne del palazzo in cui abitava.

robinc3b9-2E oggetto di venerazione è pure il ventiduenne Michele, rinchiuso a Poggioreale dove sta scontando la sua pena a sedici anni di reclusione, che grazie alla fama di benefattore delle famiglie bisognose, viene ammirato da tutta la gente del vicolo, anche dalle ragazzine che gli inviano periodicamente accorate lettere d’amore. È lui Robinù, così come viene definito dal padre. Faccia d’angelo, occhi allucinati e un sorriso che tradisce la fragilità dei suoi anni, Michele è probabilmente l’alter ego del regista, o perlomeno quello che sarebbe potuto diventare se alla sua età non avesse percorso strade completamente differenti – «un passo più in là e sarei diventato un terrorista, un passo più in qua e sono uno come voi» dichiara Santoro nell’introduzione al film. Ma per l’altro Michele c’è stata una strada sola: una vita segnata sin dall’infanzia da una «continuità urbanistica tra vicolo e carcere» impressionante, che lo ha spinto a non nutrire alcun timore per la detenzione, ma anzi a considerarla come un’esperienza in grado di rafforzare la propria personalità criminale («Dopo sedici anni uscirò peggio di prima»). Perché, come afferma un detenuto durante un’intervista, «è come chiudere un leone in una gabbia: quando lo fai uscire, ti mangia». Le prospettive di emancipazione paiono quasi nulle. 340467-thumb-full-robinu_trailer_hdCosì come per Mariano, cresciuto con il mito delle armi al punto da confessare che possedere “’o kalash” sia la cosa più bella della vita («è come avere Belen tra le braccia»). O Come Taieb, appartenente alla paranza del clan Sibillo, figlio di una prostituta immigrata e portato via da un padre che ha condotto a sua volta una vita di illegalità. Ma oltre ai giovani camorristi il documentario ci mostra anche le loro famiglie, le moglie e le madri, che, per mantenersi dopo il loro arresto, si trovano esse stesse costrette a spacciare, a volte davanti ai figli di pochi anni, a prostituirsi, o a fare le parcheggiatrici abusive.

L’unico barlume di speranza Santoro pare individuarlo proprio nella famiglia di Michele, in quel fratello pizzaiolo emigrato in Francia per sfuggire ad un destino di illegalità apparentemente già scritto. Il prezzo da pagare, però, è molto alto: un cassonetto dell’immondizia sul lungosenna come prima “casa”, una panchina condivisa con un altro senzatetto maghrebino e il dolore lacerante di non poter trascorrere le festività insieme ai cari. E non è certamente un caso che sia proprio a Parigi che compaiano sulla scena per la prima ed unica volta le forze dell’ordine, intente a reprimere un corteo di giovani manifestanti. robinucc80-675-524x275Perché in Robinù è lo Stato italiano il grande assente, il vero latitante, complice di un “welfare criminale” che permette di far sopravvivere centinaia di migliaia di persone senza doversene occupare direttamente e forse troppo sollecitato da un governo che sa quanto il PIL nazionale dipenda anche dai traffici della criminalità organizzata. Persino la scuola dell’obbligo, che diventa per i bambini un carcere dal quale è facilissimo evadere, non riesce ad esercitare un potere d’attrazione in grado di competere con quello della malavita.

Ma Robinù è anche (e soprattutto) un manifesto di denuncia in grado di fornire un’immagine di questi ragazzi decisamente distante dalla visione unilaterale restituita dalla fiction, nella quale è stata mostrata fino ad oggi soltanto la maschera della sconcertante efferatezza che anima le loro azioni, occultando quella capacità sentimentale di guardare alla vita che li spinge a diventare genitori a quindici anni e nonni intorno ai trenta. Una capacità di affrontare con coraggio l’esistenza che non viene mai intercettata dalle istituzioni, le quali rispondono all’emergenza sociale soltanto con l’esercito – ridotto ormai a mero elemento di “arredo urbanistico” – e voltano deliberatamente lo sguardo dall’altra parte. 13157-99Così come l’“altra” Napoli, quella delle famiglie perbene che quando ritrovano nelle strade della propria città quei giovani corpi sull’asfalto, in un lago di sangue, girano gli occhi da un’altra parte per non vedere. Ma Napoli è anche questa: Forcella, Scampia, Quartieri Spagnoli, Rione Traiano. Anche questa è Italia. E non basta un episodio di “Gomorra – La serie” per ricordarlo.

Valerio Ferrara

Valerio Ferrara nasce a Napoli nel 1990. Dopo aver conseguito il diploma classico, frequenta la facoltà di Economia, maturando in seguito la decisione di abbandonare questo percorso e intraprendere gli studi umanistici presso il dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli studi di Napoli Federico II, dove consegue la laurea in Sociologia, presentando una tesi in Sociologia dei processi culturali e comunicativi. La sua più grande passione è il cinema, con una spiccata predilezione per quello d’autore. Amante della musica sin dall’infanzia, è stato membro dei Black on Maroon, una band alternative rock partenopea. Dal 2016 è redattore della rivista Grado Zero.

Lascia un commento

Torna su