L’eterno schiavo nelle Strade di notte di Gazdanov

Fazi Editore ha da poco pubblicato Strade di notte di Gajto Gazdanov nella traduzione dal russo di Claudia Zonghetti (l’originale è del 1941, e una traduzione italiana era già stata pubblicata alcuni anni fa).

 

C’è certamente molto di autobiografico nell’esperienza restituita dal narratore russo che percorre, di notte, le vie di Parigi e della sua periferia a bordo del suo taxi. C’è certamente molto di autobiografico negli incontri con passeggeri o comunque personaggi che popolano i marciapiedi e i locali notturni. E c’è certamente molto del pensiero dell’autore nella riflessione metafisica, economica e sociologica che percorre tutto il testo.

Gajto Gazdanov, scrittore dell’emigrazione russa, nasce a San Pietroburgo nel 1903 e si trasferisce a Parigi nel 1923 dove esercita diverse professioni, tra cui, appunto, quella di tassista, riuscendo tuttavia a completare gli studi alla Sorbona.

 

Se la Parigi di questo romanzo si riduce, mi sembra, a nomi di viali e di strade che vengono citati in funzione degli itinerari percorsi dal narratore con o senza i suoi passeggeri, e all’evocazione più o meno vaga di una certa atmosfera che potrebbe però essere trasferita ad altre città, il testo alza il velo su un fatto storico abbastanza poco conosciuto, e cioè sulle ondate di emigrazione russa a Parigi, dopo la Rivoluzione d’ottobre, segnatamente di coloro che, come Gazdanov, avevano fatto parte dell’Armata Bianca, l’esercito controrivoluzionario russo. Costoro diedero origine a una comunità assolutamente eterogenea per provenienza sociale, professione svolta e livello di integrazione nel paese d’accoglienza: è di questa realtà, tra le altre cose, che rende conto il testo.

La struttura narrativa non è fortissima ed è tutta costruita intorno ai personaggi, alcuni solo figure di passaggio, altri più costanti, e alle incursioni nelle loro storie. E la costruzione dei personaggi non sfugge a una certa visione stereotipata, quindi appiattita e, a tratti, banale (limite che viene meno nella seconda parte del libro dove un salto di qualità dello stile ridà profondità e incisività alla narrazione). In ogni caso l’umanità presentata qui è fatta di poveri diavoli tutti raramente sobri, di uomini umili o aristocratici decaduti, di prostitute, di gente, in un modo o nell’altro, ai margini. In queste pagine si cammina accanto alla disperazione, alla rassegnazione e alla follia. E il narratore non esiste attraverso lo sviluppo di una sua propria azione quanto attraverso le sue interazioni con questa costellazione di personaggi.

L’elemento certamente più interessante del libro è lo sguardo portato su questi rifiuti umani, così li chiama l’io narrante (talvolta cinico, talvolta sarcastico, talvolta pietoso) e la sua inquietudine esistenziale. Questa riflessione è sviluppata su due versanti: quello economico e quello più squisitamente filosofico.

[…] l’ultimo stadio del degrado sociale in cui ci trovavamo tutti quanti era ormai cosa acquisita e ovvia per loro; anzi, una delle prime cause dello stato in cui versavano era forse proprio il fatto che lo accettavano – o erano pronti ad accettarlo – con grande spregio.
Quale ingiustizia sociale richiedeva l’esistenza di certi esseri? Me lo sono domandato spesso, tormentandomi.

E qualche pagina dopo:

Chi aveva bisogno – e perché – di migliaia di esistenze perse nelle cloache? Una volta Platone mi disse che, al pari delle citazioni bibliche, i barboni servivano come «materiale dialettico» e come esercizio per la vanità umana: loro avrebbero potuto essere noi e noi avremmo potuto essere loro, sarebbe bastato un insignificante guizzo del destino, una lieve «sfumatura della pigmentazione sociale».

In quello che è certamente uno dei passaggi più belli del libro, dal punto di vista letterario, leggiamo poi:

[…] pensavo che probabilmente i coolie cinesi avevano lo stesso sguardo opaco e gli schiavi dell’antica Roma la stessa faccia […]. Per quella gente la storia della cultura umana non era mai esistita, come non erano mai esistiti la storia in genere, l’alternanza dei regimi politici, la competizione cruenta fra le idee, il cristianesimo e il suo fiorire, la diffusione della scrittura. Migliaia di anni fa i loro avi ignoranti vivevano più o meno come loro, come loro lavoravano, come loro non conoscevano la storia di chi era venuto prima. Era cambiato poco o niente. […] [P]erché dopo secoli, dopo millenni di civiltà, quello stesso, eterno schiavo imbragato continuava a tirare il suo carretto all’alba di ogni mattino d’inverno e d’estate.

Quest’umanità dolorante è dunque il punto di forza del testo, e nel caso degli emigranti russi a tematiche esistenziali comuni si aggiungono, naturalmente, la riflessione politica, la nostalgia per la patria lontana, con i suoi paesaggi, la sua musica, e per tutto ciò che si è perduto.

Percorrere col narratore e con l’autore queste strade, di notte, significa muoversi nel lato oscuro, nascosto, della città, della società e dell’animo umano. E ovviamente è un viaggio interessante.

Manuela Corigliano

Manuela Corigliano nasce vicino a Milano il 26 luglio 1979. Si laurea, a Milano, in Lingue e Letterature Straniere con una tesi a cavallo fra linguistica francese e traduttologia. Circostanze professionali e personali la rendono perfettamente trilingue (francese e spagnolo, oltre all’italiano). Dal 2005 vive a Parigi, dove si occupa di traduzione e correzione di testi. La letteratura è il suo respiro, tra un’apnea e l’altra. Lettrice vorace nelle sue tre lingue di lavoro, scrive in versi e in prosa.

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