Editoria e critica letteraria

Illustrazione di Tang Yau Hoong

Il ruolo degli intellettuali all’interno delle case editrici nel tempo è radicalmente cambiato. Dagli anni Settanta, in pieno postmodernismo, a causa della continua ricerca di audience, il critico letterario ha assistito a un ridimensionamento della propria azione sociale a discapito di un’industria editoriale che si è espansa, invece, fino a comprendere il settore televisivo e digitale.
Eppure in passato, spesso, dall’interazione tra critica letteraria e editoria è scaturita l’affermazione di un canone e la conseguente fortuna di un’opera.

L’editoria postmoderna è votata al marketing, al di là della possibile mediazione di un critico. Di fatto sono sparite le figure di grandi editori al pari di Rizzoli, Bompiani, Feltrinelli, Einaudi, e dei loro autori-consulenti, Vittorini, Sereni, Calvino. All’origine di questa tendenza c’è, certamente, il consumo di massa. Ciò costringe le grandi case editrici a ricercare il miglior risultato – economico, s’intende – nel minor tempo possibile.

Negli anni Novanta i libri cominciano a essere venduti attraverso il nuovo canale della “grande distribuzione” (centri commerciali, autogrill, aeroporti, etc.). I volumi che finiscono in questi punti vendita vengono scelti soltanto secondo una previsione di vendita certa. La preselezione è organizzata secondo criteri – sconti, veste grafica, formato – utili a incuriosire consumatori non abituati a frequentare librerie.

L’interazione tra editoria e televisione comporta inoltre la scomparsa dello scrittore, dell’intellettuale umanista, del critico della cultura, facendo spazio all’intrattenitore. Gli autori, per essere letti, devono diventare icone pubbliche. È proprio negli anni in cui si innesca questo meccanismo (gli anni Novanta, come detto) che si impone il best-seller, cui si lega la figura dell’autore di best-seller, cioè di colui che viene automaticamente riconosciuto dal consumatore come icona merceologica sinonimo di novità e semplice fruibilità delle storie.

Non mancano figure alternative a questo meccanismo, ma si tratta di autori – come Eggers, Roth, Yehoshua, Oz, Coetzee, Houellebecq – che pongono la loro credibilità al centro della problematica situazione editoriale appena descritta.

D’altro canto, sempre negli anni Novanta, gli intellettuali innescano una riflessione sulla crisi della critica. Tale crisi si presenta in due accezioni: la fine di quel programma, che su modello della linguistica, auspicava la teorizzazione di una scienza della letteratura e la fine della centralità delle discipline umanistiche nel sistema dei saperi ascritti alla trasmissione della cultura. Il declassamento della letteratura è individuabile nelle scuole, dove alla letteratura vengono anteposte le nuove tecnologie: fenomeno riscontrabile nelle riforme scolastiche di quegli anni dove capeggia lo slogan delle tre “i” (inglese, impresa, informatica). A causa dell’emarginazione delle discipline umanistiche emerge, forse anche come forma di difesa, una critica dove si celebrano verità soggettive e il conseguente fastidio verso paradigmi culturali già definiti. Tendenza alimentata anche dalla richiesta di George Steiner, a fine anni Ottanta, di depotenziare la critica militante per evitare i guasti prodotti dalle grandi ideologie del passato tra lettori e opere. Così, quanto più il sistema culturale tende a fare a meno della mediazione intellettuale, tanto più la critica “tradizionale” si arrocca in posizioni difensive mentre una nuova critica, giovane, manifesta crescente risentimento e aggressività verbale.

Con gli anni Zero si apre una nuova strada per la critica. In questi anni la principale risorsa dei critici sembrano essere i blog e i forum dedicati alla letteratura. Ma l’oscillazione di internet tra l’enciclopedismo illimitato e la superficialità diffusa, non permette, oggi, di comprendere quanto si siano spostati gli equilibri nel campo dell’informazione, della ricerca, della condivisione d’idee e degli stili di scrittura. Di certo c’è che, se da un lato i blogger mancano degli strumenti culturali linguistici e retorici per affrontare determinate questioni nella loro complessità, dall’altro attraverso la loro attività riescono, in qualche misura, a rivitalizzare l’esperienza letteraria, e culturale in genere, della nostra epoca.[1]

Antonio Esposito

[1] Per le questioni trattate all’interno di quest’articolo: cfr. Editoria e critica di Emanuele Zinato, dove si entra a fondo nelle questioni affrontate, e sfruttando un più ampio orizzonte d’indagine.

Antonio Esposito nasce a Napoli nel 1989. È laureato in Lettere e specializzato in Filologia moderna. Attualmente scrive racconti, pianifica romanzi e insegue progetti editoriali di vario genere. Da editor collabora con la casa editrice Alessandro Polidoro, dove dirige anche la collana dei Classici.

2 Responses

  1. “Gli autori, per essere letti, devono diventare icone pubbliche”.
    Quanto è vero! Sempre più folte le schiere dei “simpatizzanti” per un generico scrivente da social network. Nulla di sbagliato, magari è un modo per “sentire più vicino”, umanizzare il “personaggio”, da costruire ad hoc. Sovente, però, il culto della “personalità” si pone innanzi le parole e i loro significanti non hanno più senso perché ne abbiano, ma perché vogliamo ne abbiamo.
    Idealizzazione.
    E relative conseguenze.

Lascia un commento

Torna su