Neruda e Montale, la tragica banalità di un’assenza.
Pablo Neruda è stato uno dei più grandi poeti del Novecento. Eugenio Montale, pure.
Il primo nato nella stanca e rigogliosa terra cilena un giorno di luglio del 1904, e vissuto in eterno viaggio ed esilio tra ideali e dolcezza appassita; il secondo nato lo stesso giorno, di ottobre però, una decina di anni prima, in un palazzo borghese di Genova, e vissuto studiando in un silenzio amaro e ironico i paradossi eterni della condizione umana.
Cosa è che, più di tutto, avvicinò due vite così diverse?
Mosca. Così Montale soprannominò sua moglie, Drusilla Tanzi, che portava occhiali da vista dalle lenti molto spesse. Fu un amore difficile, perché tante furono le donne del poeta, ma Drusilla lasciò un solco profondo e doloroso inciso nel cuore di Eugenio. Se ne andò nel 1963, esile, fragilissima, vittima di una salute cagionevole e di una caduta fatale.
Passeranno, per Montale, otto anni di riflessione poetica intensa, macerata nel dolore, nel silenzio. Poi riprenderà in mano la penna e darà alla luce la sua ultima raccolta poetica, dimostrando ancora una volta la capacità di spiazzare e stupire la critica e gli ammiratori.
La raccolta che ne nasce è Satura. Essa rappresenta una sorta di nuovo percorso poetico nel quale l’ironia, a volte feroce, più spesso divertita, dipinge con tratti prosastici le insensatezze della società contemporanea attraverso immagini quotidiane e volutamente banalizzanti.
Nella seconda delle quattro sezioni dell’opera, Xenia II, è inserita una delle poesie più conosciute di Montale:
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
Il breve, ultimo lapidario verso sancisce con la sua icasticità tutta l’insensatezza della vita senza Mosca. Un verbo, al passato, che racconta qualcosa di carne e sangue e anima che ora non c’è più. Un aggettivo possessivo che lascia emergere nettissima la figura della donna. E quell’articolo, le tue, che vuol dire: quelle di nessun altro.
Nell’incerto incedere lungo la strada dell’esistenza, senza la guida di Mosca, la paura di perdere l’equilibrio, il già perso interesse per i finti equilibri del mondo sono tutto ciò che la mancanza o, ancor meglio, la perdita lascia dietro di sé.
Tante furono anche le donne di Pablo Neruda. Nel 1927, console onorario in Birmania, sposò sull’Isola di Giava Maryka Hagenaar, dalla quale ebbe una bambina che morì in tenera età, e dalla quale divorziò nel 1943 per sposare Delia del Carril.
Fu Matilde, però, cantante cilena, sua ultima moglie, a far esplodere in fiumi di inchiostro le più belle parole d’amore mai state scritte. Ma come la relazione di Mosca con Montale, così la relazione di Pablo e Matilde fu complicata.
Quanto è difficile amare un poeta? Le inquietudini, le incertezze, i dubbi che tanto li allontanarono sono immortalati in una poesia di costernata malinconia, di vividissima assenza:
Matilde, dove sei? Ho avvertito quaggiù
tra la cravatta e il cuore, più su
una certa malinconia intercostale:
era che tu all’improvviso non c’eri.
Mi è mancata la luce della tua energia
e ho guardato divorando la speranza,
guardato il vuoto che è senza di te una casa
non restano che tragiche finestre.
Da tanto è imbronciato il tetto ascolta
cadere antiche piogge sfogliate,
piume, quanto la notte ha catturato:
e così ti aspetto come una casa deserta
e tornerai a trovarmi e ad abitarmi.
Altrimenti mi fanno male le finestre.
Proprio lì, tra la grandiosità di un cuore che ama e la banalità di una cravatta, oggetto spaventoso nella sua quotidianità, si nasconde il dolore mai elaborato dell’addio.
Ed esattamente come il tragicissimo elemento quotidiano nutre lo splendore di Satura, le poesie d’amore di Neruda vivono di un elenco lungo e mai scontato di oggetti di tutti i giorni.
Le scale di Montale, scale di una vita insieme, le finestre fredde e le stanze vuote di Neruda: sono tutti elementi concreti, che si possono toccare con mano, e che testimoniano così, in maniera tanto più forte quanto più banale, il gelo dell’assenza.
Due sole cose, a questo mondo, sono per l’uomo più antiche e viscerali della poesia: l’amore e la paura.
Entrambe senza dubbio collegate, anzi forse la seconda conseguenza della prima, entrambe humus per le inquietudini della penna.
Come se la primavera della poesia fosse veder morire la primavera della vita.
Sia Neruda che Montale amarono, amarono e persero l’amore, – sì, è vero, come tanti altri uomini da quando l’uomo cammina su questa terra.
Eppure, forse nessuno come loro riuscì a raccontare – semplice, definitivo – il terribile vuoto che lascia dietro di sé un addio.
Beatrice Morra