Provate a immaginare l’acqua. Non quella che scorre dal rubinetto. Provate a immaginare l’acqua del mare, di un lago o di una piscina. Una distesa d’acqua capace di contenere un corpo, di avvolgerlo, di annegarlo, oppure, di tenerlo a galla.
Nei romanzi di Julie Otsuka l’acqua è importantissima. È un mezzo e uno strumento. Attraverso l’acqua si va o si fa qualcosa. Ed è da questo assunto (Freud direbbe primordiale, originario) che i personaggi di Venivano tutte per mare e di Nuoto libero iniziano il loro cammino nella storia.
I personaggi. Non che ce ne siano davvero, poi.
Perché le narrazioni di Otsuka parlano al noi. Interi romanzi narrati alla prima persona plurale. Senza cedere mai, senza annoiare, senza sembrare strani. Leggere per credere.
La tecnica, la voce, la prospettiva corale è la stessa; le trame però cambiano. E di molto.
Venivamo tutte per mare è una storia vera, quella delle “spose in fotografia”, donne giapponesi che affrontavano il mare per approdare nella loro nuova vita. Dove? In America, ovvio. Non erano soltanto le spose a essere ritratte in fotografia, ma anche quella vita verso cui navigavano era raccontata, distorta, da istantanee che ritraevano uomini avvenenti, ben vestiti, magari davanti a una villetta in stile liberty. Ma era un po’ come un filtro Instagram ante litteram: mascalzone, ingannatore.
Erano donne che si mettevano in mare per la prima volta nella loro vita; che il mare, molte volte, non l’avevano mai visto neanche da lontano. E attraverso quella distesa d’acqua, buio e mal di stomaco, sbarcavano in questa altisonante America, sicure che avrebbero trovato al loro arrivo il marito ritoccato con il filtro. E invece trovavano lavori umilianti, notti d’intimità violenta e profanatrice, cucciolate di figli fragili come i kimono di seta purissima portati da casa, quelli che avrebbero dovuto indossare nelle grandi occasioni di quella vita che gli era stata promessa e che, però, non hanno mai avuto.
Anche Nuoto libero è una storia vera, ma più intima. Ed è vera come sono vere tutte le storie di dolore quando proviamo a raccontarle: cioè vere fino a un certo punto. Nuoto libero è la narrazione di una malattia, di un rapporto madre figlia, ma è anche una storia di acqua. “Il liquido fresco e trasparente che scorre sopra ogni centimetro di pelle”. L’acqua di una piscina, per la precisione. Un’acqua clorata che ogni giorno si riempie dei suoi frequentatori abituali: la sbadata; il super sportivo che fa sempre lo stesso numero di vasche impiegando lo stesso tempo; quelli che ci vanno cinque giorni a settimana; quelli che ci vanno solo il lunedì, il mercoledì e il venerdì a mezzogiorno.
Come il mondo fuori, anche la piscina ha le sue regole e finché vengono rispettate, finché le abitudini restano tali, finché quella distesa d’acqua trasparente assicura una “momentanea sospensione di gravità”, tutto è in ordine. Ma se sul fondo della piscina compare una crepa, e quella crepa diventa ogni giorno più grande, e anche se quelli della manutenzione provano a metterci una toppa quella cresce e si ramifica sempre più, allora che si fa? Che cosa succede alle nostre vite quando qualcosa dall’esterno picchia talmente forte da creare una frattura?
È l’inizio di un dramma, di una storia che non può che concludersi in tragedia. Eppure, un po’, fa anche sorridere:
Uno dopo l’altro introduciamo i nostri suggerimenti nella cassetta dei suggerimenti sulla porta del Direttore dell’Acquaticità. Jonathan della corsia tre: «È un graffio superficiale». La camminatrice acquatica Francesca: «di origine idiopatica». L’ereditiera dei casinò ripudiata con l’ipermobilità articolare al ginocchio, corsia quattro: «Una stimmata?». L’ex allenatrice di nuoto delle superiori e nuotatrice professionista Reverenda Eileen: «Una gracile cugina della linea nera». George Uno: «È un affronto». George due «È uno scherzo». George tre: «È un campanello d’allarme grosso come una casa». Il nuovo arrivato nella corsia sei con l’anello all’ombelico e il tatuaggio yin-yang: «È la nostra faglia di Sant’Andrea privata».
Silvia Pareschi, traduttrice di Julie Otsuka per Bollati Boringhieri, ha dichiarato in un’intervista privata per Strategie Prenestine che Otsuka è l’autrice che ha amato di più tradurre. Tra gli altri, Pareschi è anche la voce italiana di Franzen, DeLillo e McCarthy.
Julie Otsuka ha una parola con una potenza duplice: che condensa la morbidezza di un haiku con la gravità perforante del minimalismo statunitense. È nata e cresciuta in California, ma si porta dentro una storia di sangue che ha il sapore delicato dell’Oriente. I suoi romanzi sono molto brevi, quasi dei lunghi racconti, una sintesi esatta di narrazione e liricità, senza spigoli o attriti.
Da leggere nel tempo che ci vuole a mettere su l’acqua per il tè, versarla in una tazza, aspettare che si freddi e berla a piccoli sorsi.
Anna Fusari
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