L’aria che tira nei racconti di Perrotta
In questi tempi attraversati da nevrosi collettive, nei quali ogni piccolo gesto, parola e decisione sono scrutinati dall’occhio invidioso della massa social e sbrigativamente condannati con motivazioni spesso grossolane, in questi tempi in cui spesso si dice solo ciò che gli altri vogliono sentirsi dire, rinunciando all’onestà intellettuale, è rimasto poco spazio per le verità scomode e le riflessioni dissacranti. Insomma, non tira proprio un’aria buona, ed è forse questa constatazione che ha spinto Massimiliano Perrotta a scrivere L’aria del tempo (Torri del Vento Edizioni), libro che raccoglie una trentina di scritti brevi e concisi, tanto brevi da essere contenuti un appena cento pagine.
Questi scritti, che ora prendono le sembianze di racconti classici e ora di riflessioni, sembrano avere quasi tutti una caratteristica in comune: l’intento di mettere a nudo le banali contraddizioni della quotidianità. Si tratta di storie apparentemente semplici fatte di oggetti e situazioni ordinari (un incontro, un sogno, una lettera, una borsa) ma che portano in sé il peso di un grande dramma. In alcuni casi il dramma è rivelato con un umorismo che rasenta il grottesco, nel quale si mettono tanto in risalto certi difetti dei personaggi fino a quando ci si rende conto che tutto sommato non sono poi dei difetti così inverosimili, ma soprattutto – e qui sta il dramma – ci si rende conto che forse non esistono alternative valide. In altri casi il dramma umano è presentato più delicatamente, in special modo quando descrive un conflitto interiore di giovani donne alle prese con segreti personalissimi in contrasto con l’ipocrisia della società. Infine, in questa raccolta di racconti di Perrotta c’è spazio per la comicità (amara) del paradosso, come quando si spiega che la raccomandazione faceva funzionare il sistema mentre la meritocrazia lo sta rovinando, oppure quando si elogia la sconfitta mentre tutto il mondo guarda solo ai successi e misura competizione e prestazione in ogni ambito, dividendo il mondo in vincitori e perdenti, osannando i primi ed emarginando i secondi.
Non c’è un chiaro intento morale in questi racconti, ma di sicuro in ciascuno di essi si nasconde un invito a guardare la realtà con occhi nuovi e con meno costrizioni dettate dagli stereotipi.
Quanto allo stile, abbiamo già detto che la brevità dei testi è una peculiarità che caratterizza questa raccolta, impreziosendola, e alla quale se ne aggiunge un’altra: l’uso efficace dei dialoghi. Alcuni racconti sono composti di sole battute tra personaggi, come uno stralcio di copione teatrale nel quale manchino riferimenti esterni all’azione e al luogo. Questo certamente mostra una bravura dell’autore e ne tradisce anche l’esperienza di sceneggiatore, oltre a conferire ai racconti una scioltezza e un ritmo piacevoli. Almeno in un caso (nel primo racconto, per intenderci, quello intitolato Linea sessantaquattro) il dialogo è usato per presentare nella loro complessità un coacervo di voci altrimenti banali. La complessità sta appunto nel generare senso attraverso la sapiente giustapposizione di spezzoni di dialoghi, affermazioni captate al volo dal narratore, frammenti di discussioni sull’autobus che dalla stazione Termini di Roma porta i viaggiatori a San Pietro. Carpendo e riportando un groviglio di discussioni altrui, ancora una volta viene denunciata la mediocrità del sentire comune, mostrandone i limiti e, al tempo stesso, mostrando i limiti di chi vorrebbe avanzare delle critiche ispirate dal solo perbenismo.
Giuseppe Raudino