Indicazioni per una rinascita: viaggio nell’horror italiano, pt. 5

Quinta puntata della nostra inchiesta sul cinema di genere e horror italiano contemporaneo


Ragionando in tema di (ri)costruzione di un’identità nazionale italiana in fatto di cinema di genere, nell’ultimo articolo ipotizzavamo la possibilità di seguire il modello del folk horror, ovvero di quel film dell’orrore ispirato al folklore locale, di ambientazione perlopiù rurale, in cui religione e rituali sacri la fanno da padroni. In aggiunta, c’è anche un’altra strada che non sembra essere stata abbastanza praticata: vale a dire quella della commistione tra i generi. Per esempio, come ipotizza lo sceneggiatore Filippo Santaniello[1], si potrebbe provare a rivoluzionare l’horror mescolandolo alla commedia, cioè con il genere al momento più popolare e di maggiore diffusione, nonché di lunga tradizione, in Italia. Potrebbe essere, questo, un mezzo per riportare gli spettatori di ogni età a bazzicare le sponde dell’horror, persino quelli che di solito non accordano la loro preferenza ai film di paura, o che forse non sanno nemmeno bene che cosa siano. Dopotutto, la commedia consente sempre di stemperare la tensione, oltre a fungere da polo d’attrazione.

È ciò che ha fatto con i suoi film il regista Daniele Misischia, con The End? L’inferno fuori, un horror intriso di umorismo, e ancor più con Il mostro della cripta, che unisce deliberatamente la paura al divertimento – complice anche l’apporto dei Manetti Bros., il cui contributo alla rinascita del cinema di genere italiano, in veste di registi, sceneggiatori e produttori, è stato talmente intenso che meriterebbe una dissertazione a parte.

Restando in argomento, un’altra opzione consisterebbe nel ricalcare le orme dei grandi classici della nostra tradizione. Anche da questo punto di vista, non esiste un’unica soluzione possibile, ma ci sono diverse strade che si aprono davanti a noi: una di queste è tornare a praticare il giallo all’italiana, così chiamato proprio in virtù dei suoi natali. Noi italiani, infatti, ci siamo distinti per diverse varietà di cinema che abbiamo inventato e definito, ma spesso si finisce per ricordare soltanto il neorealismo o poco più. E invece, tra queste, ce n’è proprio una che fa al caso nostro, il cosiddetto, famosissimo giallo, noto anche come thrilling o spaghetti thriller per la sua precipua caratteristica di sposare la narrazione del thriller a un’estetica horror, con propaggini che arrivano fino allo slasher.

The End? L’inferno fuori di Daniele Misischia (2018)

Anch’esso, come tutto il cinema di genere, ha subito uno spaventoso declino con l’arrivo degli anni Ottanta, ma sappiamo bene che, nel mondo dell’arte, la morte non è mai eterna, e qualcuno prima o poi potrebbe decidersi a riportarlo in voga. Il giallo è sempre stato un punto d’incontro ideale tra il pubblico italiano e quello straniero, riuscendo nell’impresa di farsi apprezzare un po’ ovunque, e chissà che, quindi, non possa rivelarsi una carta vincente per il nostro cinema: infatti, da una parte potrebbe fare da traino a una nuova filiera dell’horror e simili, e dall’altra contribuire a una maggiore affluenza di pubblico nelle sale.

Basti pensare che sotto la definizione di giallo ricadono molti di quei titoli arcinoti che spesso, erroneamente, finiscono più genericamente all’ombra dell’horror, da Il gatto a nove code di Dario Argento a La ragazza che sapeva troppo di Mario Bava. E non a caso abbiamo citato due dei registi italiani più saccheggiati (o omaggiati, che dir si voglia) all’estero. È ben nota l’influenza che Bava e Argento hanno esercitato fin dagli esordi ben oltre il genere horror, estendendosi anche all’opera di Polanski e Tarantino e traducendosi infine in rifacimenti.

«Forse dovremmo ripartire dal vecchio e cominciare a realizzare remake», sostiene appunto Marcello Aguidara[2]. «In America attingono a Fulci e Bava, in Francia anche, perché non possiamo farlo anche noi?». Infatti, perché no? Il rifacimento non è un’operazione vergognosa, né tantomeno deve tradursi necessariamente in una copia pedissequa dell’esemplare; al contrario, può comportare un aggiornamento, non solo sul piano estetico ma persino su quello narrativo, prendendo il film originale e trasportandolo verso una nuova modernità.

È quanto accaduto con il Suspiria di Luca Guadagnino, che di quello argentiano mantiene premesse e contesto, ma di fatto è anche un’opera nuova. «Non è questione di rimanere ancorati al passato – chiarisce Aguidara – ma di sfruttare un patrimonio già collaudato a nostra disposizione per provare a riavvicinare il pubblico al cinema di genere, così che nel frattempo si possano formare le maestranze e gli artisti e possa rifiorire l’industria».

Il caso di Suspiria è un esempio calzante per il nostro discorso: in Italia, il film ha incassato oltre un milione di euro, e benché queste cifre non siano affatto da capogiro (complessivamente i guadagni sono stati inferiori al budget investito), restano comunque superiori ai risultati di qualunque altro horror italiano rilasciato negli ultimi dieci anni. L’operazione economica, decisamente consistente, ha consentito una buona pubblicità alla sua uscita, ma non è da sottovalutare il richiamo esercitato proprio dal titolo, da quel ricordo di un lontano e suggestivo capolavoro mondiale.

That Dirty Black Bag, serie tv diretta da Mauro Aragoni

Qualcosa di simile è accaduto proprio in questi mesi con una serie (anche) italiana, That Dirty Black Bag, diretta da Mauro Aragoni[3]. In tempi di rinascita del western, con prodotti che arrivano soprattutto dalla sua patria naturale, gli Stati Uniti, That Dirty Black Bag si configura come un interessante esperimento di ripresa della sua chiave italiana, quello spaghetti western che tanta fama ci ha regalato nel mondo. La serie, derivata dal lungometraggio omonimo dello stesso Aragoni, «nasce dalla voglia di ricordare chi eravamo», come dice il regista, secondo il quale, però, ogni artista ha il compito di trovare una voce originale. «Siamo stati il primo spaghetti western dopo tanti anni, avevamo anche il compito di omaggiare, il che è stato divertente. Ho inserito talmente tanti easter eggs che sarebbe difficile contarli. Adoro gli omaggi, ma finché rimangono tali. Detto questo, credo che l’Italia debba ricrearsi l’identità perduta ed evolverla».

E quale modo migliore di ricreare la propria identità e portarla verso nuove frontiere di quello di partire dalle radici? Ma per farlo, bisognerebbe prima sapere chi eravamo. Conoscere chi è venuto prima di noi. Bisognerebbe, cioè, recuperare la storia del cinema, inteso come «cinema a 360 gradi, senza distinzione di genere. Liberarsi dalle etichette negative, cambiare approccio a partire dagli stessi addetti ai lavori e cominciare a comprendere che anche questo è cinema». Silvia Moras[4], docente e storica del cinema, ne fa un discorso educativo. Quello di cui avremmo bisogno, cioè, è creare cultura, abbattere le barriere tra le categorie, che funzionano come compartimenti stagni assai meno di quanto pensiamo: «Manca persino la consapevolezza delle incursioni che tutto il cinema d’autore ha fatto nel cinema di genere».

Quello dell’educazione al cinema di genere è un tema che ci accompagna fin dalla prima tappa di questo viaggio e che, come abbiamo già avuto modo di constatare, riguarda tutti, da chi nel cinema lavora di professione fino ai suoi fruitori. E in quest’attività di recupero e riavvicinamento un ruolo fondamentale viene svolto dalle piattaforme, secondo modalità che indagheremo nel prossimo articolo.

Andrea Vitale


[1] Filippo Santaniello, sceneggiatore, tra le varie opere è autore di The Slider, arrivato secondo all’Amsterdam Film Festival e menzione d’onore ai California Film Awards, e Fade Out, attualmente disponibile su Prime Video.

[2] Marcello Aguidara è redattore di Nocturno, la principale rivista italiana dedicata al cinema di genere. Come si legge nella bio sul sito della rivista, è autore di sceneggiature per la tv e per il cinema e ha lavorato al montaggio di documentari, reportage e videoclip.

[3] Mauro Aragoni è regista e autore del film Quella sporca sacca nera, scritto insieme a Roberto Comida. Da quest’ultimo è stata tratta la serie That Dirty Black Bag, di cui ha firmato regia e sceneggiatura e che è attualmente disponibile su Paramount+. Gli altri autori della serie sono Marcello Izzo, Silvia Ebreul e Fabio Paladini.

[4] Silvia Moras, docente e storica del cinema, ha lavorato nell’ambito di numerosi festival ed eventi cinematografici, è collezionista di locandine e materiali vari legati al cinema di genere italiano ed è consulente per il Museo Permanente del PAFF! di Pordenone.

Andrea Vitale nasce a Napoli nel 1990. Frequenta il liceo classico A. Genovesi, e nel 2016 si laurea in Filologia moderna alla Federico II. Ama la musica e la nobile arte dei telefilm, ma il cinema è la sua vera passione. Qualunque cosa verrà in futuro, spera ci sia un film di mezzo. Magari, in giro per il mondo. Attualmente frequenta un Master in Cinema e Televisione.

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