Una questione di marketing: viaggio nell’horror italiano, pt. 2

Seconda parte della nostra inchiesta sul cinema di genere e horror italiano contemporaneo


Nell’articolo precedente ci eravamo lasciati con una domanda sull’industria cinematografica, a proposito della produzione di cinema di genere in Italia, ed è da lì che vogliamo continuare. L’impressione è che la produzione sia aumentata in maniera consistente nell’ultimo ventennio, tanto da indurci a parlare di rinascita (almeno quantitativa) dell’horror in Italia, e con essa aumentano naturalmente anche le probabilità di assistere a opere pregevoli e in grado di imporsi all’attenzione nazionale.

Tuttavia, osservando lo stato di salute generale dell’horror nostrano, non sembra di riscontrare risultati notevoli sia sul piano della dimensione narrativa sia su quello della composizione estetica. Il che non vuol dire che non si producano più bei film, ma che quelli che funzionano sotto ogni punto di vista – a cominciare dalla costruzione della storia, fino ad arrivare all’impianto visivo – restano ancora una minoranza. «È come se col passare del tempo avessimo smarrito qualcosa, e non riuscissimo più a realizzare prodotti innovativi» dice Vincenzo Petrarolo[1], regista di I Follow You e Lilith’s Hell, per il quale la situazione non è limitata però esclusivamente all’horror, né tantomeno soltanto all’Italia. «Il cinema è diventato una questione di marketing, dove si vedono tantissimi derivati – e si potrebbe citare una qualunque delle innumerevoli saghe – ma ci sono poche idee nuove in giro e scarsa personalità. È pur vero che oggi come oggi riuscire a spaventare, a impressione, creare la cosiddetta suspense, è ancora più difficile di quanto non fosse già in passato. Per sua natura, l’horror ha molto a che fare con queste emozioni, anche con la sensazione di claustrofobia; per questo molte storie possono anche avere una costruzione semplice, essere ambientate per esempio interamente all’interno di una casa, che da luogo di protezione possono trasformarsi in posti temibili, a ciò non toglie che sia molto importante lavorare a una solida idea di partenza».
Insomma, sembra di capire che la crisi è generale, e non c’è da stupirsi pertanto che attecchisca particolarmente su un terreno già disastrato come il nostro cinema di genere.

I Follow You di Vincenzo Petrarolo (2022)

«Il problema principale delle produzioni italiane riguarda gli investimenti», sostiene lo sceneggiatore Filippo Santaniello[2], ricordando anche la marea di realtà indipendenti che operano sul territorio italiano che, quand’anche abbiano l’intenzione di sostenere il cinema di genere, non possono contare su risorse ingenti. Anche Santaniello concorda sul fatto che l’horror possa essere fatto anche di storie semplici, «ambientate tutte all’interno di un appartamento, che perciò non richiedono enormi sforzi economici, ma questo non basta. Puoi anche riuscire a girare un film di questo tipo, ma cosa succede dopo?». Succede che se non c’è una rete in grado di accogliere il prodotto e di farlo conoscere al suo pubblico ideale, quel prodotto, e cioè il film, è destinato a scomparire nell’arco di una proiezione o due.

In realtà, gli autori con cui abbiamo dialogato in queste ultime settimane sono tutti d’accordo su un punto: se da una parte si fatica ancora a farsi prendere sul serio dagli investitori quando si tratta di cinema di genere, dall’altra non va neppure negata l’esistenza di una classe di registi e di produttori che stanno provando a smuovere le acque, anche se ancora pochi. «Soltanto dieci anni fa, certe storie non le avrebbero mai ascoltate, mentre oggi ci sono nuove generazioni di produttori più attenti» ci dice Ascanio Malgarini[3], regista e produttore, che insieme a Christian Bisceglia ha diretto Fairytale e Cruel Peter. Eppure, nonostante l’evidente miglioramento rispetto agli anni Novanta o ai primi Duemila, quel modello industriale di cinema che caratterizzava l’epoca d’oro di Fulci, Bava, Argento e compagni sembra essersi dileguato.

L’horror, infatti, al pari degli altri generi consanguinei, dovrebbe essere destinato ad approdare anche ai mercati esteri per prolungare la sua esistenza ben oltre i limiti della distribuzione nazionale. Potremmo addirittura asserire che l’horror si presti a una fruizione senza confini molto più di altre categorie cinematografiche più blasonate – per esempio ben più della commedia, dal momento che i contesti culturali di riferimento atti a suscitare la comicità di battute e situazioni sono difficilmente traducibili. Per questo l’industria dell’horror andrebbe ripensata per una platea internazionale, «perché si tratta di un genere con una notevole fascinazione visiva in grado di far leva anche su un pubblico straniero, e in questo modo si potrebbe recuperare anche sugli incassi», ci dice Malgarini, che ci riporta, come già Bisceglia, a un discorso che è – o dovrebbe essere – politico. «Non mi definisco statalista e non auspico un intervento massiccio dello stato nell’economia del paese e nel libero mercato, ma credo che sia necessario un provvedimento per evitare questo massacro». Difatti, il cinema italiano è costantemente costretto a confrontarsi al box office con le uscite delle principali major americane e straniere, che hanno non soltanto la possibilità di stanziare maggiori risorse economiche, ma anche di finanziare una più solida campagna di marketing.

Ne consegue che i nostri competitor internazionali possono contare su un fattore estetico più ricco – maggiori fondi consentono inevitabilmente maggiori ricorsi agli VFX, che sostengono e ampliano la libertà d’espressione degli autori – e in aggiunta su una promozione pubblicitaria che può rivelarsi fatale per il nostro cinema. «Forse si potrebbe pensare a una finestra in cui limitare le uscite straniere e lasciare più spazio ai film italiani», ipotizza Malgarini, che rileva dunque come uno degli ostacoli per l’horror in Italia sia la mancanza di una strategia, di una visione, di lungimiranza – insomma, di un’industria intesa nel suo senso più classico.

Piove di Paolo Strippoli (2022)

Cosa accade, pertanto, a quegli horror italiani – ma il discorso si potrebbe estendere davvero, ancora una volta, a tutto il cinema di genere – che riescono ad approdare in sala e a ottenere una distribuzione nazionale? Solitamente, vengono proiettati su pochissimi schermi per un periodo di tempo che non supera una settimana, con una copertura mediatica pressoché inesistente, per poi lasciare spazio a qualche blockbuster ampiamente pubblicizzato su tutti i canali possibili. Prendiamo il caso di Piove, l’ultimo film di Paolo Strippoli rilasciato in sala lo scorso 10 novembre: l’elenco delle sale in cui era disponibile è talmente esiguo che si potrebbe riassumere in un paio di righe e gli incassi sono stati ben al di sotto delle aspettative. Eppure, Strippoli era reduce da A Classic Horror Story (co-diretto con Roberto De Feo), il film rilasciato da Netflix che ha trovato posto anche sulla stampa estera, e il suo Piove poteva contare su una sceneggiatura vincitrice del premio Solinas e su performance di tutto rispetto.

Se poi un film come The Bunker Game, diretto da Roberto Zazzara, ha potuto invece raccogliere guadagni più consistenti, è stato proprio in virtù di una distribuzione all’estero, in Europa e in Asia, che ha dato risultati migliori di quelli riscontrati in patria. Complessivamente, gli horror italiani che hanno visto il buio della sala nel 2022 non arrivano ai risultati di un successo come l’americano Smile, che lo scorso autunno incassava oltre due milioni (nel momento in cui scriviamo, anche L’esorcista del papa e La casa – Il risveglio del male, entrambi di produzione americana, viaggiano intorno ai due milioni e mezzo di incassi qui da noi). Insomma, sembrerebbe che gli horror italiani in Italia non li guardi più nessuno, vuoi perché subiscono il confronto con l’offerta straniera, vuoi perché mancano della promozione che gli fornisca un’adeguata visibilità. Ma se, oltre a tutto questo, ci fosse anche qualche altra ragione?

Andrea Vitale


[1] Vincenzo Petrarolo è regista e autore di Lilith’s Hell e I Follow You, film horror che hanno ottenuto notevoli riconoscimenti ai festival e distribuzione internazionale.

[2] Filippo Santaniello, sceneggiatore, tra le varie opere è autore di The Slider, arrivato secondo all’Amsterdam Film Festival e menzione d’onore ai California Film Awards, e Fade Out, attualmente disponibile su Prime Video.

[3] Ascanio Malgarini è regista, produttore e CEO di Goood s.r.l., società di product design e servizi audiovisivi. Insieme a Christian Bisceglia, ha diretto Fairytale e Cruel Peter, entrambi disponibili su RaiPlay.

Andrea Vitale nasce a Napoli nel 1990. Frequenta il liceo classico A. Genovesi, e nel 2016 si laurea in Filologia moderna alla Federico II. Ama la musica e la nobile arte dei telefilm, ma il cinema è la sua vera passione. Qualunque cosa verrà in futuro, spera ci sia un film di mezzo. Magari, in giro per il mondo. Attualmente frequenta un Master in Cinema e Televisione.

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