Racconto Milleuno
Call
Ai miei genitori non piacevano le parole.
Mio padre dice, sono solo parolai, ogni volta che sente l’intervento di chiunque faccia delle parole strumento di guadagno. Un politico, un divulgatore. Un imprenditore, soprattutto. Un agente immobiliare: ma il proprietario, non il poveraccio che mandano a far vedere monolocali. I soldi devono venire da cose pratiche e dignitose: noi siamo dignitosi, infatti, perché mia madre insegnava matematica – molto, molto pratica, molto bene – e lui è impiegato nel settore logistica. Noi siamo dignitosi e tutti gli altri, cialtroni.
Mia madre, le parole, le usa a caso. Non per sciatteria, non per ignoranza. Per disinteresse, io credo. Lei dice, per velocità. Ma non ha bisogno di velocità nelle sue giornate. Si alza dal divano solo per raggiungere la presa di corrente più vicina, per mettere in carica il cellulare. Ha smesso di lavorare quando sono nata io. Io però, non lo devo fare, dice: finisci per dipendere da un uomo, e per annoiarti.
Io amo le parole, perché mi piace poco mio padre. Mi piace far faticare il cervello per trovare la sfumatura di senso esatta, e sono convinta che questo mi distingua da lui. Mi piacciono anche i luoghi comuni. Si dice che la parola ferisca più della spada, e se ci vogliamo credere allora più parole saprò più gli sarò letale. Così spesso mi capita di restare in silenzio alla ricerca della parola che mi serve. Uno dei miei successi maggiori, in un momento di vuoto mnemonico, è stato inflazionato: mi serviva per un argomento di tesi che il mio relatore mi aveva bocciato perché, su quello, era già stato detto tutto. Peccato.
Quando ho chiuso con L avevo finito le parole. È stata una bella storia. Durata due anni, il tempo di affezionarsi, conoscere i parenti, iniziare a programmare il futuro mentre ci si comincia a stufare del viso dell’altro. Quando avevamo iniziato, avevamo ventun anni avviati; quando ne sono uscita, qualcosa meno di ventiquattro, ma me ne sentivo cinquanta. Ero in una fase in cui pensavo di poter calcolare ogni passo e ogni sua conseguenza. L abitava in un’altra città. Era stato così fin dal primo giorno della nostra storia: il primo bacio era stato sulla porta del treno che lo riportava a casa. Le cose cambiano, diceva poi mia madre, la vita ti porta in luoghi inaspettati: le dicevo di sì ma pensavo che no.
Si dice di una persona che ci ha insegnato tanto: io da L non ho imparato niente, ma ho scoperto qualcosa. Tipo, che parlavo sempre con esattezza, ma non quando litigavamo: il dolore che mi infliggeva L mi toglieva il fiato per emettere suoni, mi lasciava lì, saccoccia sgonfia di una fisarmonica che suona a fischi confusi.
Un mio compleanno. Avevamo pranzato con i miei genitori: in un locale che cucinava il pesce su delle piastre roventi, mi avevano fatto tagliare una fetta della mia torta preferita, la foresta nera. Mia madre dava colpetti al ginocchio di mio padre, lo intuivo attraverso la tovaglia. Lui si irritava. Poi eravamo rientrati a casa, i miei se n’erano andati, e io avevo detto a L che volevo rompere. Lui aveva avuto una crisi respiratoria. Io lo guardavo dalla sedia girevole della scrivania, e mi sforzavo di provare qualcosa. Ma perché, ma perché continuava a chiedere: io non avevo una risposta da dargli. Era sera, così era rimasto a dormire perché non c’erano più treni. Di notte avevo sentito le sue dita cercare la mia schiena e sfiorarla appena: si era addormentato così, aggrappandosi a un contatto che già non c’era più.
Il giorno prima avevo detto a mio padre che non avrei partecipato al concorso per entrare di ruolo a scuola. Invece, avrei provato la via del dottorato, me l’aveva buttata lì il relatore. Uno schiaffo per lui: non aveva mai accettato del tutto che avessi scelto Lettere e non Ingegneria o Veterinaria, ma confidava che prima poi avrei trovato la ragione. Devi concretizzare, mi aveva ripetuto per tutto l’ultimo anno di magistrale. Devi stringere, arrivare al sodo. Guadagnare. Non si vive di parole, non puoi vivere di libri. Metti la testa a posto, diceva, vai a insegnare, hai studiato per far questo. Non sono sicura che sapesse nel dettaglio cosa fosse un dottorato, ma i dettagli non gli interessavano: erano altri tre anni spesi a sfogliare pagine e recitare lezioni non utili al benessere sociale immediato. A volte, al liceo, parlavo di una verifica di grammatica e lui diceva: è ammirevole come l’uomo sia capace di astrarre. Io, nell’analisi logica vedevo la più grande concentrazione di praticità che avrei mai potuto raggiungere nella vita. Non gli rispondevo niente, comunque.
Il giorno dopo il compleanno, L aveva voluto parlarne: io non riuscivo ad articolare parola. Ce ne stavamo in salotto, io abbandonata sul divano, attenta a non spiegazzarne la coperta rosa salmone che lo ricopriva, lui appoggiato allo schienale, alla mia destra. Non parlavamo. Io, non parlavo. L non era più triste, era positivo e deciso a farla funzionare. Diceva che qualunque problema avessimo, l’avremmo risolto. Non eravamo mai uno contro l’altra, ma guardavamo verso la stessa direzione e insieme affrontavamo le difficoltà che ci entravano in casa, e. E. E? Io ero abbandonata al suo flusso di pensieri. Pensavo ai sentimenti, alla loro intensità, alla difficoltà di esporli a parole. Un’assenza di sentimenti, come la si descrive? Quel giorno se ne è andato in treno, facendomi promettere che mi sarei presa il tempo che mi serviva, ma che poi l’avrei chiamato. Sarebbe andato tutto bene. In casa, ho steso un rotolo di scottex sul pavimento. Mi ci sono inginocchiata accanto, e ho scritto “ti amo, ?” nel mezzo. Tutt’attorno, per l’ora seguente, ho scritto le parole che avrei voluto dire a L, ma che non mi uscivano dalla bocca. Tutto quello che forse era stato amore, forse non lo era più. Poi l’ho arrotolato stretto, ci ho messo un fiocco e ho preso il telefono. Quando ha risposto ho detto, le parole sono importanti, sai.
Michela La Grotteria è nata nel 1999 a Genova, ha studiato a Milano e al momento sta completando la magistrale in Italianistica a Bologna. Redattrice per Magma Magazine e Critica Letteraria, si occupa soprattutto di letteratura francese contemporanea. Ha pubblicato racconti su Blam!, quaerere, Bomarscé e Squadernauti.
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