Lingue, malattie e quasi-luoghi in “Ferrovie del Messico” di Gian Marco Griffi
Si è parlato molto di Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi (uscito, nel 2022, nella collana fremen diretta da Giulio Mozzi per Laurana) e si continuerà a farlo, fosse solo per l’operazione ardita e controcorrente di portare sul mercato, oggi, un romanzo di oltre ottocento pagine, ingarbugliato e dal titolo esotico.
Ma si continuerà, soprattutto, per la bravura di Griffi – e poi perché un romanzo del genere, dove il lettore davvero si perde, dove non c’è “una storia” bensì l’apertura di un vaso di Pandora, un corpo a corpo tra l’autore e l’illimitato reale, riporta al centro del discorso qualcosa che spesso latita nelle scritture italiane (che è problematico nel momento storico delle piattaforme e dello streaming), e cioè la forza immaginativa della scrittura.
Storia, storie, Babele
Dunque, riprendendo il discorso: Ferrovie del Messico non può essere racchiuso in “una storia”, non è sintetizzabile, se non in questa forma essenzialissima: verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, Cesco Magetti, membro della Guardia nazionale repubblicana ferroviaria di Asti, riceve il compito di disegnare la mappa delle ferrovie del Messico e ha mal di denti. Si capisce come, se rapportata alla mole del volume, questa trama già esile è destinata a sgretolarsi. Questo perché, infatti, non solo il romanzo contiene, oltre che una storia, la Storia – come scolasticamente a volte si dice – e cioè lascia che la vicenda del povero Magetti, destinato kafkianamente a seguire un ordine dei superiori di cui non comprende il senso (che se ne fanno i tedeschi della mappa del Messico? Dov’è e come diamine è fatto il Messico?), si intersechi con gli eventi maiuscoli della vicenda umana. E, di più, contiene le storie, plurali, con una serie variegatissima di personaggi (dalla malinconica Tilde allo strambo poeta Edmondo Bo ai becchini Mec e Lito Zanon), che si interpongono tra Cesco e la mappa (o tra Cesco e la vita), oppure lo sfiorano e basta.
Ferrovie del Messico, insomma, appartiene a quella tradizione (o anti-tradizione) di romanzi felicemente ingestibili, strabordanti: dal Furioso, da Cent’anni di solitudine, da Horcynus Orca, dai Detective selvaggi (questo Bolaño in particolare mi viene in mente) – da, insomma, i romanzi-mondo (e anche dai romanzi-mondo solamente evocati nelle pagine stringate ma calcolatissime di Borges), Griffi (che molti di questi, e altri, cita, più o meno espressamente) eredita il gusto per la digressione, che, per quanto colta, non è però eruditismo, bensì l’evidenza di come le storie implichino altre storie, infinite. Quindi infiniti personaggi e infinite voci. E qui è un punto che in particolare occorre sottolineare, per guardare allo snodarsi (articolato e insieme fluidissimo) del romanzo: che tutti i personaggi tirati in causa, tutte le situazioni, hanno la loro lingua. E che mentre Cesco vaga per Asti dietro al suo problema, Griffi attraversa una vera Babele: trova il tedesco dei nazisti, il sardo della curandera, il romanaccio dell’Aiutante capo, lo slang dei frequentatori dell’Aquila Agonizzante – ma anche il burocratese dei repubblichini, le poesie visionarie (e visive) di Emondo Bo, l’eventuale «VOCABOLO NON RICONOSCIUTO» dall’«esprimi-parole», le lettere di Cesco rivolte ai «cari futuri» e quelle di Firmino dalla Russia; insomma, la lingua specifica, irripetibile, di ogni singolo personaggio. E una lingua, soprattutto, che non viene riportata bensì indossata da una voce narrante che cambia capitolo dopo capitolo.
Quasi-luoghi
In un così composito universo, agitato da questo rincorrersi tra lingua e situazione, si capisce come la costruzione della mappa sia anche allegoria del romanzo stesso – cioè dello sforzo di avvicinare realtà, immaginazione e segno. Ne consegue la forte connotazione dei luoghi griffiani, quasi dei luoghi-funzione, cioè dei luoghi-letteratura, e cioè – riassumendo – zone dell’esistenza in cui il materiale e il fantastico contrattano.
Non esattamente dei non-luoghi, quindi, bensì, potremmo dire, dei “quasi-luoghi”, costantemente discussi nel loro essere attraversati dai personaggi, che con quelli intessono un rapporto di antagonismo o di completa integrazione – comunque, un rapporto di reciproco condizionamento. È così, chiaramente, per il Messico, archi-luogo del libro, vertice dell’immaginazione che muove tutte le pedine del romanzo. Ma è così anche per l’Aquila Agonizzante, sorta di mondo laterale dove si consuma una nuova socialità e si costruisce l’alternativa politica; «il niente» in cui a un certo punto incappa Cesco; la mitologica Islanda raggiunta a nuoto da Steno; la Torre Ottagonale che richiama la Biblioteca di Borges; l’introvabile Santa Brígida de la Ciénaga; la stessa Asti, trasformata in labirinto.
Epica e malattia
Se lo spazio griffiano è quindi uno spazio liminale, sempre teso tra la sua realtà geografica e la sua dissoluzione immaginaria, quella dei personaggi che lo attraversano non può che essere, in qualche modo, un’epica. E così infatti il racconto cardine, quello della mappa da disegnare, si configura come un allucinato viaggio picaresco, che parte da Cesco e si estende a tutti i personaggi, mostrando ognuno alle prese con la propria ricerca.
Ciò che realmente muove Cesco, però, non tanto è la stesura della mappa: arrivata dall’alto come ordine incomprensibile, quella fa quasi da cassa di risonanza di contraddizioni che vivono già in Cesco, e massimamente riguardano il suo ruolo nella Storia, il conflitto tra la divisa repubblichina e la maturazione della sua coscienza (che contro la prima, alla fine, si muove). Di questo è probabilmente allegoria il mal di denti con cui il protagonista combatte per tutta la lunghezza del libro. La sua epica è perciò un’epica del rapporto tra realtà e rappresentazione (mappa del Messico + divisa) e contemporaneamente un’epica che fa scontrare il sano col patologico (mal di denti + contatti con gli antifascisti).
Ma l’epica di Griffi non si risolve semplicemente nella vittoria dell’eroe. Siccome la sua gnoseologia è la tensione infinita e labirintica tra reale e immaginario (il “quasi-luogo”), anche l’epica non può che configurarsi come epica inconclusa e impossibile da concludere. Quando Cesco sconfigge il mal di denti, e la mappa, e la Storia, alla fine diventa un altro uomo, «un altro, che ancora non conosce». Ancora, però – e cioè in allusione a ulteriori, infinite, storie, ridefinizioni di Cesco e del suo universo. Così gli altri personaggi, invischiati nelle loro malattie più o meno reali e più o meno risolvibili, e spinti ad agire proprio da quelle: il patologico, così, viene a sovrapporsi del tutto al reale; l’immaginazione, anzi, diventa il patologico del reale, il suo incessante e incomprensibile motore.
Antonio Francesco Perozzi