Epos e collasso in “L’ora muta” di Simone Cerlini

L’ultimo libro di Simone Cerlini, L’ora muta (Alter Ego, 2021), è un romanzo corposo, che posiziona le vicende di Camilla Doveri – atleta e studentessa precisa, lanciata verso una promettente carriera aziendale – all’interno di un universo oscuro, fatto di soprusi, inganni, incertezze.

Epica e frammento

Ciò che contraddistingue L’ora muta, innanzitutto, è la mole, intesa sia come effettiva lunghezza del libro, sia come “mole” simbolica, di spazi e tempi che si vanno a intrecciare. Il libro, infatti, supera abbondantemente le quattrocento pagine e corre dall’Estate 1985 (come leggiamo in apertura) alla Primavera 2018, coprendo dunque un arco temporale di ben trentatré anni. Se consideriamo poi che il romanzo non procede sempre linearmente ma – soprattutto nella parte centrale – ingloba flashback, flashforward, visioni, l’arco temporale si dilata ulteriormente, si mostra pieno di falle e mette alla prova la ricostruzione degli eventi che compie il lettore (alcuni titoletti, anzi, sono veri e propri depistaggi: «Flashforward? Flashback? Tutte le risposte al momento giusto…», «Né flashforward né flashback. Forse una fantasia, forse un sogno»).

Una tendenza coagulante e una frammentante sono quindi alla base della struttura del romanzo, e il risultato finale è quello di un epos scomposto, che traccia una traiettoria e insieme la destabilizza, sfida, contrattacca. Se da una parte, infatti, L’ora muta risulta incorniciato da Prologo ed Epilogo, proponendosi dunque come opera compiuta, dall’altra mostra al suo interno una gran varietà di sottostrutture e registri: dopo il prologo troviamo la sezione Il tempo della festa – che racconta in maniera cronologica le vicende di Camilla e dell’amica/rivale Luisa, nonché degli enigmatici genitori della protagonista, Giorgio e Aida – quindi Oltre la fabbrica: materiale per un trattamento, che invece procede per “atti”, suddivisi a loro volta in capitoletti brevissimi sistemati in ordine non cronologico e dall’ossatura teatrale, con i nomi dei dialoganti in maiuscoletto. A partire da Nessun margine di errore, poi, il romanzo riprende il tempo lineare, agitandolo, però, attraverso parti in corsivo, scene “girate” dal punto di vista di specifici personaggi (Camilla, Moira, Giorgio…) e scritture “riportate”, come ad esempio articoli di giornale.

Lavoro e destino

Questa struttura composita eppure armonica, tendente a formare a suo modo un romanzo-mondo, diventa tanto più significativa quanto più la si confronta con la storia raccontata. Camilla, in effetti, da Prologo a Epilogo segue la più tipica delle epiche contemporanee: quella del lavoro. Di più: tutti i personaggi del libro legano a doppio nodo il proprio destino a quello della propria professione, interagiscono fra loro entro le coordinate di una scacchiera comune che è esattamente il lavoro.

Se all’inizio, infatti, il rapporto tra Camilla e Luisa – combattiva e intelligente la prima, scapestrata e intelligente la seconda – si configura come storia di ambigua amicizia e quindi come scontro tardoadolescenziale tra affetto e passaggio al mondo del lavoro, con il procedere del racconto inizia a mostrare gli scheletri nell’armadio: il dissesto della Maglieria Reggiane impone a Giorgio un esilio sulle coste liguri; la caparbia e scaltra Moira gioca con Camilla, le favorisce una scalata in azienda che coincide però con una scalata di sofferenze. La passione di Camilla per il pugilato, perciò, non significa altro che questo: da una parte lottare con le unghie e con i denti, come ogni buona mitologia capitalistica invita a fare; dall’altra illudersi che la sola forza dei muscoli sia sufficiente a direzionare una realtà che è invece assai più oscura di quanto appare, e incontrollabile.

Il buco nero

Evitando spoiler, dunque, possiamo dire che il romanzo – con un gusto figlio delle pagine più politiche del Petrolio pasoliniano – svela poco alla volta i demoni innescati dal meccanismo del lavoro, che prima concede e poi torna a riscuotere. Cerlini ha buon gioco, in questo: costruisce personaggi su cui non pende un giudizio definitivo, una prosa che asfissia il lettore, un rigoroso show don’t tell che impedisce ogni infodump, che dà il meglio di sé nelle scene più concitate e – paradossalmente proprio questo, forse, il punto debole del libro – fa sentire la sua assenza quando molla il tiro, nei punti meno sorvegliati.

Gettato nella storia da questa prosa severa e calcolata, il lettore non trova segnali di indicazione, e così, in maniera nuda e cruda, è messo di fronte a un’esperienza che sente in qualche modo anche sua. Precariato, povertà, abuso di potere, corruzione, stakanovismo ossessivo, classismo, mobbing, truffa, istigazione alla prostituzione, sfruttamento: ogni vicenda solleva un orlo del mistero oleoso del lavoro, che diventa così il cosmo dove i personaggi agiscono e sono illusi, ma anche il buco nero dove l’epica delle loro storie collassa definitivamente.

Antonio Francesco Perozzi

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