Racconto: L’abbraccio del blu – Monica Coppola

Racconto Milleuno
Call


Avevo voluto tutto blu.
Non l’avevo programmato: Il Blu si era fatto spazio da solo, aveva preso forma dentro di me, nella mia casa.
Non sapevo come fosse accaduto, non mi aveva mai attirato prima, quel colore.
Amavo il rosa – il rosa antico a dire il vero – anche se mi stava di merda ma gli altri non avevano il coraggio di dirmelo. Ci giravano intorno, la prendevano larga. Usavano espressioni del tipo “non ti sta male ma…”.
Ma cosa? Cosa ometteva quella sospensione?
Quando lo chiedevo alzavano le spalle, restavano vaghi.
Fanno sempre così le persone che ti giudicano, quando fanno finta di non farlo.
La mia passione per il rosa antico continuava. Fino a quando, insieme ai preparativi per il matrimonio, è esploso Il Blu.
Il divano? Prendiamolo blu. I lampadari? Anche. I tappeti? Pure.
Ma non avevi detto che i tappeti non ti piacevano?
Sì infatti, non mi piacciono. Ma ci vogliono in una casa, no?
La verità era che avevo ventitré anni e nessuna idea di cosa ci volesse in una casa. O di cosa volessi io dalla vita.
Non vivevo fuori dal mondo: case ne avevo viste, conosciute, frequentate. Alcune mi erano piaciute, altre mi avevano respinta, soprattutto quelle troppo ordinate, immacolate; quelle che a muoverti dentro hai paura di rompere qualcosa e di spezzarti anche tu.
L’unica certezza che avevo in quel periodo era come non volevo la mia prima casa: desideravo con tutte le mie forze che fosse diversa, molto diversa, da quella in cui ero cresciuta e vissuta fino ad allora.
Ma non sapevo da dove cominciare: ero una giovane donna che ancora faticava a vedersi come tale anche se presto, molto presto, notando il cerchio dorato al mio anulare, tutti avrebbero iniziato a chiamarmi «Signora». Mi faceva uno strano effetto quel sostantivo. Mi evocava qualcosa di molto distante da me, una parola che, mio malgrado, mi avrebbe seguita insieme a quel cognome nuovo che, sempre secondo gli altri, avrei dovuto utilizzare in sostituzione del mio.
Una specie di adesivo sociale che si sarebbe scollato respinto dalla mia identità, dai miei jeans sbiaditi, dalle ciocche di capelli arrotolate con fermagli colorati, dai calzini a pois. Da quella me che in quel sostantivo-collante non riusciva a specchiarsi, a riconoscersi.
Mi sentivo spaesata e forse per quello mi è venuto in aiuto il Blu: mi ha preso per mano, aggrappati a me, così non ti perdi, mi ha sussurrato.
Mi faceva paura perdermi. Mi faceva paura anche la mia casa nuova, quella che prima di me aveva custodito la storia di un’altra famiglia, di sicuro migliore, più esperta di quella che stavo per formare io.
La prima volta in cui ho varcato la soglia di quella casa è stato con un piccolo inganno.
«Andiamo a prendere un caffè da una coppia di miei amici che non conosci». Così mi aveva detto il mio quasi marito.
L’appartamento mi era piaciuto: era uno di quelli in cui non hai paura di romperti, né di perderti. Una camera e tinello che moltiplicava la luce, due finestre nel bagno, altre due nel cucinino; la camera da letto ampia con il palchetto, così diverso da quelle piastrelle a chiazze psichedeliche della casa dei miei genitori; quelle in cui, se perdevi qualcosa potevi cavarti gli occhi ma non lo trovavi mai più. Le stesse su cui mi ero smarrita anche io pensando di essere identica loro, di custodire nel mio DNA lo stesso, tossico, marchio d’infelicità.
Non era stata una brutta serata, quella dai finti amici del mio quasi marito, anche se avevo bevuto caffè nero, senza latte che mi aveva bruciato lo stomaco e il sonno; ma ero stata orgogliosa il caffè lo avevo accettato per non essere maleducata, le Signore non lo sono mai.
Non avevo sospettato nulla e in completa ingenuità avevo detto «Dovremmo trovare una casa così. Sarebbe perfetta per noi».
E lui l’aveva comprata. Un gesto da film che mi aveva spiazzata. Mi aveva convinta che, cavoli, vedi ho camminato sulla merda fino a ora ma da adesso mi aspetta il palchetto, la luce, i pavimenti nuovi e lì se perdo qualcosa lo ritrovo. Se mi perdo io mi aggrappo al Blu e mi ritrovo.
Il Blu ha mantenuto la sua promessa. Mio marito no.
Mi ha lasciata spesso da sola; lo ero anche quando ho scoperto che nella casa nuova avveniva un incantesimo: il buio amplificava lo spazio, il vuoto mi ramificava intorno, cercava di inghiottirmi. Io andavo in apnea, come quando ero piccola e premevo forte la testa sul cuscino: desideravo svanire, non sentire più le grida dei miei nell’altra stanza; trattenevo il fiato per non disturbarli mentre loro si sputavano addosso veleno. Dissolvevo il respiro e schiacciavo la fronte sudata sulla federa che profumava di ammorbidente Coccolino: mia madre si era fissata, voleva solo quello e mio padre si incazzava perché costava troppo, ma non puoi prendere un detersivo qualunque, che per lavare sono tutti buoni, invece di buttare soldi mentre io mi spacco la schiena alla Fiat? Andavo in apnea per non pensare. Per proteggere quella bambina che i miei trattavano da adulta, anche se non lo era per niente.
Forse è per questo che adesso, in questa casa nuova, quando spengo la luce avviene l’incantesimo: la bambina che non sono stata torna a trovarmi e io annego. Mi divincolo, scalcio, combatto per non essere sommersa dal passato; muovo il braccio, cerco aiuto verso il lato in cui dovrebbe esserci mio marito per riprendermi, per salvarmi, ma lui non c’è: incontro solo altro vuoto io cui annaspo da sola.
Sono di nuovo la bambina che di notte va in apnea pregando di dissolversi.
Ma poi mi ricordo della promessa del Blu. Tocco a tentoni qualcosa, la stringo, un filo a cui mi aggrappo per risalire; premo e scopro che non sono io a dissolvermi ma l’oscurità: tutto si illumina, la luce della lampada blu mi avvolge, mi rivela una verità diversa.
Mi custodisce in un abbraccio in cui, esausta, mi addormento.


Monica Coppola, vive a Torino e si occupa di consulenza e formazione. Ha pubblicato i romanzi La misura imperfetta del tempo (Las Vegas Edizioni) e Viola, vertigini e vaniglia (Booksalad); partecipato alle antologie Dai un morso a chi vuoi tu (Booksalad) Quattro Petali Rossi (Arpeggio Libero), 3 Numero Imperfetto (Buendia Books), Cento parole (Giulio Perrone) e Salvataggi a favore di Pangea Onlus. Ha scritto racconti per La Repubblica – L’Espresso, per le riviste letterarie Carie e Crack e per il blog di Vanity Fair.  È in uscita a fine anno un nuovo romanzo per Las Vegas Edizioni.

Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

Lascia un commento

Torna su