Racconto: Fermata Anagnina – Luigi Cecchi
Racconto Confine
Call Nella camera chiusa
«Prossima fermata…» gracchiò l’altoparlante, poi si interruppe. La frase rimase spezzata a metà, aleggiando sulla massa di corpi stanchi stipati nel vagone. Nessuno diede importanza a quella misteriosa interruzione dell’annuncio. La signora Pina lo terminò per conto suo, sottovoce: «…Anagnina.» Poi sollevò la testa attendendo che il treno rallentasse. Cercava di scorgere, attraverso il vetro, il nome della prossima fermata impresso su un sudicio pannello di forex che se ne stava appeso alla volta ricurva del tunnel, poco prima della stazione vera e propria. Quel cartello era lì dal 1998, quando c’erano stati i lavori di rinnovo di alcune fermate della linea A. L’avevano messo lì come indicazione temporanea, ma poi se l’erano dimenticato e nessuno l’aveva più tolto. Fatto sta che negli anni successivi, il passaggio fugace fuori dal finestrino della scritta “Anagnina”, sbiadita su un cartello bianco incrostato di muffa, era divenuto per la signora Pina una specie di promemoria.
«Mi scusi, posso passare? Devo scendere.» Chiese, afferrando il corrimano. E fu il gesto che le salvò la vita. Non la richiesta cortese, ovviamente. Quella può salvarti la vita in molti modi e in molte occasioni, ma non in questo caso. Aver afferrato proprio in quel momento il corrimano, fu questo le permise di sopravvivere alla tremenda frenata che il treno effettuò giusto un attimo dopo. Lo stridio dei freni e la tempesta di scintille risalirono lungo la struttura di lamiera dell’intero convoglio illuminandola e facendone vibrare gli interni per un lunghissimo istante, poi il contraccolpo scagliò verso la testa del treno ogni cosa che non fosse saldamente fissata al suolo, o che non avesse prontamente afferrato un sostegno. La signora Pina vide il giovanotto dall’aria trasandata di fronte a sé, al quale aveva poc’anzi chiesto permesso, volare via come colpito da un’automobile invisibile. Si chiamava Sergio e doveva prendere un Flixbus per Crotone. La stessa violenta forza d’urto la subirono Giacomo Veneziani, un baffuto impiegato del ministero del lavoro; Matilda Lanzavecchia e sua figlia Mimì, di ritorno da una visita medica di controllo; Karim Farinella, che in quel momento si stava immergendo nell’ultimo successo trap scaricato nel telefono; Oscar Mutti, il cui collo si spezzò come una canna di bambù contro una roccia quando impattò col fondo del vagone; Karla e suo marito Guglielmo Velieri, ancora storditi a causa dei bagordi della pacchiana cerimonia di nozze della notte prima organizzata dal loro amico Vincenzo La Torre, che fece loro da cuscino umano quando volarono tutti e tre contro uno dei sedili vuoti, salvandosi da morte certa (Vincenzo invece morì sul colpo); Mariangela, Francesca e Simmy, che rotolarono tutte e tre abbracciate sul fondo del vagone facendosi un gran male; e infine Rolando detto Fortebraccio, neo-fascistone di Casapound, che ci rimise tutti gli incisivi. La signora Pina, come precedentemente detto, riuscì a stringere la mano attorno al palo metallico di sostegno e quando avvenne l’improvvisa decelerazione fu solo premuta con violenza contro il sedile di plastica. Altri previdenti quanto fortunati passeggeri furono Carlo Lamberti Cavezza, che si aggrappò come un polpo al suo ragazzo Federico Fenicio, a sua volta abbracciato a un palo; Giovanna Telluri, insegnante e scrittrice in erba che aveva tardato ad alzarsi dai sedili perché stava cercando un fazzoletto nella borsa, procedura che ogni volta le portava via almeno dieci minuti; Frank Harrington, con sua moglie Joanna e i suoi tre figli Nicholas, Gabriel e Vicky, in visita a Roma in un periodo dell’anno strategicamente non-turistico, tutti seduti composti sui sedili e che finirono per ritrovarsi praticamente uno sull’altro, come dei pancake; Denise Ping, anche lei in vacanza a Roma, strinse in tempo la giacca di Marco Bartoli, uno studente di ingegneria a Roma Tre, ma fu sollevata in aria e colpì un sbarra orizzontale con la schiena, fratturandosi diverse vertebre e precipitando in fin di vita tra le braccia di Guglielmo Velieri; infine Tommaso Giraldi, detto “Er Tommasone”, cadde a terra e riuscì ad ancorarsi a un sedile, favorito dalla massa del suo corpo, provocandosi solo dolorose abrasioni sulle braccia e sulla pancia.
Il frastuono lasciò velocemente il posto a una serie di sinistri echi che si disperdevano nella galleria buia giungendo all’interno del convoglio in qualche modo ovattati. Una cacofonia di lamenti e di gemiti si fuse a quegli echi, generando un sottofondo di disperazione che ben accompagnava la scena. I vari corpi sballottati, schiacciati, contusi e feriti iniziarono con la lentezza di un risveglio di massa a prendere coscienza del proprio stato. Qualcuno si ritrovò con arti fratturati, altri con giunture lussate, altri ancora con vestiti imbevuti di sangue che nella migliore delle ipotesi non apparteneva a loro. C’erano anche dei morti, ma quelli se ne restarono tranquilli a terra, senza lamentarsi.
«What… the fuck… just happened?» Domandò la signora Harrington scivolando via dalla pancia di suo marito. Nicholas era già caduto a terra e Gabriel stava tossendo perché aveva inghiottito una gomma da masticare. Vicky, cozzando con il naso sul vetro, se l’era fratturato e adesso piangeva a dirotto mentre fiumi di sangue le colavano fuori dalle narici mescolandosi con la saliva e le lacrime. La signora Pina fu la seconda a dire qualcosa. Le fece male parlare, forse si era rotta una costola a causa della pressione contro il sedile, ma ringraziò velocemente Gesù quando si rese conto del miracolo della propria salvezza.
«Qualcuno chiami i soccorsi! – Disse. – Qualcuno con il telefonino!»
Francesca e Simmy non riuscivano a muoversi per il dolore e giacevano l’una sull’altra in un angolo del vagone, quasi completamente coperte dal massiccio Rolando che era volato sopra di loro. Rolando aveva appena sputato i denti spezzati sul pavimento. Cercò il proprio cellulare nelle tasche dei pantaloni ma non lo trovò. Chissà dov’era finito. Notò un iPhone con cover glitterata e orecchie da coniglietto che sporgeva dalla tasca di una delle due adolescenti sulle quali era atterrato, e lo afferrò. Bloccato, ovviamente.
«Porca troia! Dove cazzo è il mio cellulare?» Sbraitò, sputazzando sangue.
Mariangela fu scossa da quell’imprecazione rauca e si rese conto che le sue due amiche erano prive di sensi. Recuperò il suo smartphone dalla tasca della felpa e cercò di chiamare sua madre, ma non c’era campo. Zero.
«Non prende… non c’è segnale!» Disse Federico.
«Neanche il mio prende. Nemmeno il segnale di emergenza…» Aggiunse Carlo, che si era lussato un paio di dita e con difficoltà riusciva a maneggiare il telefonino.
«È stato un attentato?» Domandò a quel punto la Telluri, constatando che anche il suo telefono era del tutto inutile.
«Oh, no… – Esclamò Pina, portandosi una mano al volto, – non c’erano arabi!»
«Ma che c’entra, signora! L’esplosione è avvenuta ad Anagnina, noi per fortuna non eravamo ancora arrivati alla stazione.» Fece notare Rolando. La signorina Ping emise in gridolino, comunicando al mondo che era ancora viva, sebbene incapace di muoversi. Guglielmo si risvegliò e se la ritrovò in braccio. Spaventato e scioccato, la scaraventò via e cercò di rialzarsi da terra, ma la sua caviglia cedette e finì per ricadere sul pavimento con un tonfo.
«Una bomba? Hanno messo una bomba?» Farfugliò.
«Una bomba alla fermata Anagnina. – gli rispose Rolando, che stava aiutando Mariangela ad alzarsi. – So’ stati gli arabi.»
«Ma che cazzo dici?» Lo aggredì Karim, tirandosi via le cuffie dalle orecchie. Le sue gambe erano piegate in modo innaturale e aveva paura di muoverle, ma era rimasto cosciente per tutto il tempo.
«Dico che hanno fatto esplode ‘na bomba, nun so se te ne sei accorto.»
«Ma che cazzo ne sai? Perché, non può essere esplosa una conduttura del gas?»
«Per me è stata una bomba. – Sentenziò la signora Pina. – Io me le ricordo, le bombe! Ero ragazzina.»
«E poi pe’ le stazioni della metropolitana mica ce passano le condutture del gas! …o me sbaglio?» Aggiunse Er Tommasone, che si era appena trascinato verso una delle pareti, riuscendo così a mettersi seduto. Denise Ping emise un altro gemito acuto, e morì.
«Ma che c’entra ‘ndo stava la conduttura? Se sta sopra e esplode, vie’ giù tutto lo stesso!» Commentò con tono spazientito Federico, che aveva notato la croce celtica sul braccio di Rolando e istintivamente sentì il dovere di dare supporto al ragazzo egiziano. Rolando, in risposta, finse uno sbadiglio annoiato.
«Scusate, ma non c’è un modo per chiamare i soccorsi? Quella roba lì… non funziona?» Domandò Giovanna Telluri, indicando una specie di citofono smaltato di rosso con un pulsantone dello stesso colore poco vicino.
«HELP! HELP!» Gridò Frank nell’interfono, schiacciando a ripetizione il pulsante. La signora Harrington nel frattempo era riuscita a radunare tutti e tre i figli, e a stringerli tra le grosse braccia.
«Aspetta! …wait! WAIT! – Gli fece gentilmente Marco, avvicinandosi. Ad uno sguardo veloce il ragazzo non aveva nessuna ferita addosso. La sua giacca era strappata e si era stirato un muscolo, ma tutto sommato era uno dei passeggeri che ne era uscito meglio. – Bisogna tenere premuto… e poi si parla. Calma.»
Il signor Harrington si scostò, poi indietreggiò verso la sua famiglia e si sedette, aggiungendo le proprie braccia a quelle della moglie.
«Capotreno? Stazione? C’è nessuno?» Disse Marco, parlando nell’interfono. Ma nessuno rispose.
«Questo è morto.» Disse qualcuno.
«Pure questa.» Aggiunse un’altra voce.»
«Questo no, respira.» Constatò un terzo.
«Beh lascialo dormì che è mejo.»
Carlo a quel punto scavalcò Federico decidendo che qualcuno doveva prendere il controllo della situazione e fare qualcosa. Mise una mano sul petto del ragazzo chiedendogli di stare indietro e di evitare di infervorare gli animi.
«Ragazzi… ragazze… gente… se ci riusciamo, prendiamoci cura di chi sta male… ma nel frattempo… ecco… penso che dovremmo cercare di uscire di qui.»
Indicò la porta.
«Da questa parte il vagone è troppo addossato al muro. – Fece notare Er Tommasone. – Prova di là… ma la vedo dura, guarda com’è piegata la lamiera.»
Carlo si avvicinò alla porta più vicina che dava sul lato del tunnel più agevole ad una eventuale discesa. Ruppe un paio di sigilli di sicurezza e ruotò la leva per l’apertura manuale, ma tutto quel che ottenne fu uno sgradevole brusio seguito da un paio di rintocchi metallici.
«Credo che si sia sbloccata… mi dai una mano?» Chiese, rivolto a Fabrizio.
Anche Marco e Rolando si avvicinarono. Afferrarono la porta come meglio poterono e iniziarono a strattonarla. Dopo diversi tentativi e qualche scossone, lasciarono perdere.
«Beh ma ce stanno altre porte, no?» Esclamò Rolando, riprendendo fiato.
Il gruppo si spostò davanti alla porta successiva e la sbloccarono. Stavano per procedere ad aprirla, quando qualcosa di davvero bizzarro scivolò lungo il vetro, all’esterno del vagone. All’apparenza poteva essere descritta come una massa di schiuma gelatinosa di un colore indefinito tra i blu scuro e il verde marcio. Il suo passaggio sui vetri della porta, veloce e improvviso, lasciò una scia di muco giallognolo che si raccolse in grosse gocce e prese a scorrere copioso verso il basso. Tutti e quattro i ragazzi scattarono all’indietro, spaventati.
«Ma che cazzo era?» Esclamò Rolando.
«It’s open? Can we leave?» Ripeteva ossessivamente Frank, giacché dal fondo nessuno degli altri, ammucchiati sul fondo della carrozza, aveva visto nulla.
«No, regà… c’è qualcosa qui fuori!» Mormorò Marco.
«Ma che cazzo era?» Domandò di nuovo Rolando, alzando la voce.
«…un sorcio gigante?» Suggerì Fabrizio.
«Non sembrava affatto un sorcio gigante.» Fece notare Marco.
«Qui l’unico sorcio che vedo è quel fascio demmerda! – Gridò Francesca, che aveva ripreso coscienza qualche minuto prima, e stringeva fra le braccia Sammy, ancora priva di sensi. – La volete aprì ‘sta cazzo de porta? L’amica mia se sta a dissanguà!»
Mariangela si inginocchiò di fronte a Francesca e la mise al corrente di quello che era successo.
«La stronzata della bomba non è vera.» Aggiunse Karim, che aveva ascoltato tutto.
«Beh qualcosa è esploso, no?» Gli rinfacciò Mariangela, indispettita. Karim chiuse gli occhi e non li riaprì mai più.
«Allora? Questa porta?» Li sollecitò Giovanna, stringendo sulle gambe la borsa.
«Mio figlio starà in pensiero. – Commentò Pina. – Non mi sente da stamattina. Gli avevo detto che arrivavo alle due, sono quasi le tre.»
Quell’essere di muco scivolò di nuovo sul vagone. Stavolta passò lungo le vetrate più vicine al fondo, quindi tutti coloro in grado di notarlo, lo fecero, emettendo simultaneamente dei gridolini di paura. La massa di schiuma verde-blu rallentò in prossimità della porta che Marco aveva precedentemente sbloccato, e delle propaggini mollicce si allungarono fuori dal corpo principale accarezzando la superficie del metallo.
«Oh, no! No, please!» Gridò la signora Harrington. Karla Velieri abbracciò suo marito Guglielmo e salmodiò qualcosa in polacco. Mariangela scattò una foto al mostro col cellulare. Non poteva caricarla subito su Instagram, ma aveva intenzione di farlo più tardi. Quando uno sbrodolio di bolle azzurre si infiltrò attraverso le paratie della porta allargandosi sul pavimento all’interno, una successione di gridolini isterici e reazioni di spavento percorse la carrozza. Quella cosa schifosa stava entrando. Nessuno osò fare nulla, anche perché nessuno concepì alcunché di sensato da fare. Tutti i passeggeri si limitarono a fissare l’orrore ribollente con gli occhi sgranati mentre lentamente spingeva il proprio corpo liquido attraverso le fessure.
«Fate qualcosa! Sta entrando!» Gridò Giovanna. Ma la sua richiesta disperata non fu che l’ultima delle frasi dettate dalla paura che gli eventi avevano indotto i presenti a pronunciare. E infine, quindi, la massa ribollente si ricompose, aggregandosi a formare una grossa semisfera di schiuma larga circa un metro. Un odore acuto e insolito raggiunse il naso di tutti i presenti, lasciando supporre che nel composto, apparentemente vivente, fossero in atto diverse reazioni chimiche. La cosa era confermata anche dal rumore prodotto da quella specie di ameba frizzante, che corrispondeva più o meno a quello di una carbonatazione, o di un’aspirina gettata in un bicchiere d’acqua.
Giovanna non resistette e le tirò addosso la borsa. Non ottenne risultati apprezzabili: la schiuma si allontanò dal punto di impatto della borsa per qualche secondo, poi la ricoprì e tornò ad assumere la medesima forma vagamente bulbosa.
«Forse dobbiamo attaccarla con il fuoco!» Suggerì Fabrizio.
«Guarda che mica è un mostro di Final Fantasy.» Lo schernì Carlo.
«E poi comunque credo che sarebbe col gelo… sai, mostro d’acqua…» Aggiunse Marco.
«Ma che cazzo dite? – Urlò loro Er Tommasone. – Qualcuno vuole muoversi e buttare via quello schifo?»
Rolando si avvicinò e diede una pestata all’ameba, facendola schizzare tutta attorno. Parte delle bollicine restarono ancorate al suo piede, come delle formiche quando si calpesta un formicaio, ma la maggior parte della schiuma si limitò nuovamente ad allargarsi e raccogliersi di nuovo. Rolando indietreggiò perplesso. Subito dopo, un gorgogliare sgradevole emerse dal corpo spumeggiante modulandosi rapidamente verso suoni comprensibili. Dapprima ai presenti sembrò di udire una serie di parole pronunciate in cinese, nella maniera distorta in cui le riprodurrebbe una vecchia radio, ma in una manciata di attimi il suono si assestò, come se una mano invisibile ne stesse aggiustando la frequenza impostandola sul giusto canale.
«…ntite? Capite quello che sto dicendo?» Disse la massa amorfa.
Seguì un intero minuto di completo silenzio. Se si escludono gli ultimi rantolii di Matilde Lanzavecchia, che morì soffocata dal proprio sangue.
«Ho bisogno di una conferma. Mi sentite? Capite quello che sto dicendo?»
Stavolta Er Tommasone gli rispose, con un bel “sì” ad alta voce.
«Bene. Possiamo procedere. – Proseguì la massa schiumosa, sollevandosi un pochino. – Innanzitutto mi confermate che siamo su [suoni incomprensibili], terzo pianeta del sistema di [altri suoni incomprensibili], e che voi rappresentate un campione della popolazione intelligente di [ancora suoni incomprensibili]?»
Mariangela scattò altre cinque o sei foto. Marco si fece avanti strizzando gli occhi con evidente curiosità.
«Tu… sei un alieno?» Domandò.
«Alieni schifosi. – Mormorò Rolando. – Peggio degli arabi.»
«Qui le domande le faccio io, altrimenti finiamo nel [suoni incomprensibili]. – Rispose il presunto alieno. Nel frattempo, un piccolo tentacolo molliccio si stava muovendo tutto attorno. – Quante persone vive ci sono qui?»
Nessuno rispose.
«Va bene. Metto “numero indefinito”. Prima domanda: siete o no favorevoli ad accettare l’annessione al [suoni molto lunghi, complessi e incomprensibili]? Non siete tenuti ad esprimervi a riguardo, ma registrerò le vostre risposte in caso vogliate darmele.»
«In che senso “annessione”?» Domandò Rolando.
«Non capisce la domanda.» Fu la risposta dell’ameba.
«Annessione a cosa?» Chiese Giovanna.
«Non capisce la domanda.» Sembrò ripetere l’ameba.
«Non capiamo la domanda!» Disse Marco.
«Non capisce la domanda.» Ripetè ancora l’ameba.
Poi riprese:
«Domanda successiva: se la forma di governo che vi fosse imposta fosse [suoni molto sgradevoli], sareste comunque disposti a collaborare con [suoni molto lunghi e complessi]?»
Nel vagone tornò il silenzio. Il singhiozzare di Francesca, preoccupata perché Simmy continuava a impallidire, catturò l’attenzione degli altri passeggeri per la prima volta.
«Ma sì, certo!» Esclamò la signora Pina.
«Bene.» Confermò l’ameba.
Tutti gli altri rivolsero una sguardo interrogativo all’anziana signora, che scrollò le spalle.
«Basta che la finiamo, che devo andare da mio nipote.»
«Sì, va bene.» Disse Er Tommasone, nascondendo una smorfia di dolore.
«Certo, ok.» Si accodò Marco. E così fecero anche Mariangela, e poi Carlo, Fabrizio, Karla, suo marito Guglielo, Giovanna e tutti gli altri. Persino la famiglia Harrington, senza capire granché di quello che stava accadendo, si pronunciò con una serie completa di “yes”. La schiuma parve raccogliersi per un attimo e proseguì:
«Terza domanda: se il [suono incomprensibile] decidesse di confiscare ogni risorsa di [suono incomprensibile], sareste disposti a tollerarlo, in cambio di [suono incomprensibile che a tutti parve suonare come “tarta de queso”]?»
E così via. L’ameba pose circa una dozzina di domande, attendendo ogni volta che tutti i presenti potessero, volendo, esprimersi. Al termine del questionario, ringraziò in diciassette lingue diverse per la pazienza, quindi scivolò oltre la porta e se ne andò. Nel tempo trascorso a rispondere alle domande, le condizioni di molti dei passeggeri ancora vivi dopo il disastro erano peggiorate in maniera critica. Alcuni di loro morirono silenziosamente nel frattempo, per altri non fu possibile fare nulla anche dopo l’arrivo dei vigili del fuoco e delle unità di soccorso. Simmy, all’anagrafe Simona Carmelitano, sedici anni appena compiuti, morì poco dopo essere stata estratta dalla fermata Anagnina della metropolitana.
Tornando a respirare l’aria aperta, i sopravvissuti vennero a sapere che in diversi altri luoghi, sparsi in tutto il globo, era accaduta la stessa cosa: dei bolidi alieni avevano attraversato l’atmosfera e si erano schiantati sulla Terra. Da quelle capsule metalliche a forma di chicco di riso erano fuoriuscite strane forme di vita, che avevano posto domande alle persone presenti, senza dimostrarsi violente in alcun modo. Ottenute le risposte, le creature erano tornate alle capsule ed erano volate di nuovo in cielo, senza lasciare traccia di sé. Beh, eccezion fatta per i crateri, la devastazione e i morti causati dal loro atterraggio. Chiunque avesse vissuto questo bizzarro primo contatto fu interrogato dalle autorità locali e poi rilasciato. Ognuno di loro tornò a casa serbando nel cuore l’intensa sensazione di aver fatto una gran cazzata, e che prima o poi ne avrebbero pagato le conseguenze.
L’unica a non pensarla così, era la signora Pina.
«Ma che è successo, Ma’?» Le chiese il figlio, quando tornò a casa, due giorni dopo.
«Guarda, sono due giorni che non mi chiedono altro che di ‘sta storia, lascia stare. Piuttosto, come è andata l’ecografia di Marzia, è un maschietto o una femminuccia?»
Luigi Cecchi, è scrittore, sceneggiatore di fumetti e disegnatore di comic strips, noto al pubblico per il fumetto Drizzit (Shockdom) in cui fa parodia del genere fantasy e The Author (Shockdom/Mini G4m3s Studio) in cui mette in scena un suo alter ego per rovesciare con melanconica ironia luoghi comuni ed errate concezioni sugli autori di opere di fantasia. Scrive da sempre e diversi racconti sono stati premiati, inseriti in antologie o pubblicati su riviste. Nel 2011 con la raccolta Frammenti è stato segnalato al Premio Calvino. La raccolta rielaborata e pubblicata da Del Vecchio con il titolo Il Karma del Pinolo, si è aggiudicata il Premio Biblioteche di Roma 2016.
I suoi lavori: https://linktr.ee/Bigio977