Festival di Sanremo, la trasgressione potrebbe essere donna

Ci sono molte cose che fanno rima con Sanremo. Non letteralmente, s’intende. La musica, prima di tutto. I comici, poi: il palco dell’Ariston negli anni è stato ospite di alcuni degli interventi più memorabili della storia della tv italiana. Non da ultimo, le polemiche. Siamo lontani dai tempi in cui la kermesse era una semplice esibizione canora. E questo perché Sanremo è prima di tutto un evento televisivo, e in quanto tale dev’essere spettacolo. Lo sanno i dirigenti, lo sanno i direttori artistici, e ne sono consapevoli pure i cantanti.

Dal momento in cui la canzone fuoriesce dalle radio, trasborda verso un medium che non impegni soltanto l’ascolto, diventa qualcos’altro. Qualcosa di più. A volte è la canzone stessa, o il tema, a richiedere un corredo visivo di completamento. Gli anni Ottanta ce lo hanno insegnato. La generazione MTV lo sa bene. Per qualcuno poi la spettacolarizzazione diventa l’ingrediente principale dell’esibizione, dentro e fuori Sanremo. È la differenza tra i cantanti e i performer. Lo sanno bene l’Achille Lauro di oggi e gli Elio e le Storie Tese di ieri. Talvolta è semplice divertissement, è orpello, è movimento. È la vecchia che balla sulle note de Lo Stato Sociale o la pattinatrice che accompagna Colapesce e Dimartino. Altre volte, invece, è teatro, è narrazione. È allora che Sanremo si mette a far rima pure con un’altra parola: provocazione. In molti ci hanno provato, in questi settantadue anni del festival della canzone italiana. A sconvolgere, a trasgredire per far parlare. Ma in quale misura il festival può (ancora) dirsi veramente trasgressivo?

Prendiamo l’Achille Lauro di cui più sopra. Sale sul palco a petto nudo, accenna a uno spogliarello che non conclude, e allora? Tolto lo shock iniziale delle nostre nonne nell’apprendere che ci si può tatuare anche su parti del corpo che i vestiti non possono coprire, dopo quattro anni di ininterrotta presenza a Sanremo le abbiamo viste tutte. La trasgressione sarebbe tale se non facesse più Achille Lauro. Tant’è che in molti hanno notato che quest’anno tutta la messa in scena è stata un po’ pochino. Battesimo compreso, che persino l’Osservatore Romano ha archiviato con inatteso humour. È andata a finire che ci siamo abituati. Lauro ci ha abituati. Laddove ci aspettavamo la trasgressione è subentrata la consuetudine.

Prendete adesso gli altri: Irama, Sangiovanni, Michele Bravi, Mahmood e Blanco, e pure i Måneskin, tutti coi loro smalti, e i pendenti, e le camicie trasparenti e i capezzoli in bella vista. E lo fanno con una tale naturalezza che t’accorgi che non lo stanno esibendo, ma lo vivono. Quei loro trucchi, quegli ornamenti, quell’abbigliamento sono parte di loro, dentro e fuori dall’Ariston, tant’è che ci stupiremmo di più se Sangiovanni non avesse lo smalto sulle dita.

Soltanto dieci anni fa – o forse anche meno – ai miei genitori sarebbe cascata la mascella nel vedere così tanti uomini vestiti e truccati come allora soltanto le donne facevano. Oggi, invece, dicono che vogliono andare ai loro concerti. In Italia saranno rimasti i soliti noti e pochi altri a strabuzzare gli occhi (sempre più di quanti ne vorremmo, comunque). Quando guardi Damiano David non ti stupisci più che abbia il mascara sugli occhi; piuttosto resti a constatare quanto gli stia bene.

Una mia amica mi ha scritto in un messaggio che Amadeus è stato bravo a far entrare a Sanremo tutti questi colori, riferendosi più alla varietà degli stili (d’abbigliamento) che a quella dei generi (musicali). Ha detto che ha reso un gran servizio alla libertà di essere come si vuole. In verità, non credo che il conduttore possa attribuirsi troppi meriti in tal senso. La mia opinione è che non avesse molta altra scelta, e la Rai con lui, che far entrare il paese dalla porta principale. Certo, il direttore artistico avrebbe potuto ignorare come stanno realmente le cose – che tra i nomi di quest’edizione ci sono i cantanti di maggior successo della precedente annata, ospiti compresi – ma poi cosa ne sarebbe stato dello share? E lo spettacolo, si sa, viene prima di tutto.

Lo stesso discorso vale per la musica. Mi rendo conto soltanto adesso di quanto Sanremo sia stato a lungo prevalentemente monocromatico (e no, non c’entra nulla col FantaSanremo). Quando ero piccolo io – e non parliamo di preistoria – il festival non era così variegato. Perché non lo era neanche la musica. Quella delle radio, delle copertine dei giornali e degli show in prima serata era sempre la musica dai grandi nomi e da un solo genere. C’era tutta una realtà underground, un sottobosco musicale che esisteva agli eventi dal vivo e trapelava appena su MTV. Ogni tanto qualche nome veniva fuori, lì all’Ariston, ma sempre uno alla volta, e sempre per tornare poi nell’oblio. Vent’anni fa sarebbe stato impensabile avere artisti come La Rappresentante di Lista sul palco per ben due anni consecutivi. Invece oggi la scena è cambiata talmente tanto da permettere ad artisti come Sfera Ebbasta, Ghali e Madame di emergere sulla superficie e di restarci. E chi conduce un programma che faccia i numeri di Sanremo non può ignorarlo.

Dove sta, allora, la trasgressione? Dove sta la novità, il cambiamento, la provocazione, sempre ammesso che ci siano? Se non è nel complesso dei cantanti in gara e nemmeno in quello degli ospiti, può risiedere nella scelta del cast? Certo, potrebbe. Ma è andata così? Nì. Sulla carta, decisamente. Lorena Cesarini, Drusilla Foer e Maria Chiara Giannetta rappresentano – per ciò che fanno o per quel che rappresentano – la rottura degli schemi. Il pugno in faccia al perbenismo. L’adozione dell’inclusività. I loro interventi sul razzismo, sulla disabilità e sull’accettazione delle unicità altrui ci hanno commosso. Ci hanno fatto riflettere (si spera). Però a conti fatti sono state poco più che degli invitati, anche loro. Se volete avere un’idea di chi sia una co-conduttrice, andate a vedere il festival di Carlo Conti e Maria De Filippi.

In questi tre anni in cui ha fatto da padrone di casa, Amadeus ci ha deliziato con delle presenze femminili interessanti, meritevoli, fresche. Ma sempre dall’arrivo tardivo, come un ospite d’onore che si fac giustamente attendere. E puntualmente, quando il riflettore era finalmente puntato su di loro, lui rimaneva lì, sempre ai margini dell’inquadratura: come un padrone di casa che si assicuri che i suoi invitati non rompano nulla. Soprattutto, a ricordarci che il conduttore unico è lui. Le altre, più che co-conduttrici, lo spettro antico di una valletta. Sorridenti ma silenziose, come quando a proclamare la classifica alla fine di ogni serata se ne stavano accanto a lui senza pronunciare neanche una delle venticinque posizioni.

Sapete quale sarebbe stata la vera rivoluzione di questo festival? Se fosse stata una donna, per esempio, ad annunciare Amadeus. Se si fossero divisi parimenti il palco, come del resto accadeva con Fiorello. La vera rivoluzione, quella che ci auguriamo, quella che vorremmo vedere, non ha nulla a che fare con cantanti e canzoni. Perché se parliamo di musica, Sanremo si è già aggiornato. Ora spetta allo spettacolo fare un passo avanti. Far sì che le donne non siano la ciliegina sulla torta, ma possano essere l’intero dessert. Magari, perché no, anche l’intera cena.

Andrea Vitale

Andrea Vitale nasce a Napoli nel 1990. Frequenta il liceo classico A. Genovesi, e nel 2016 si laurea in Filologia moderna alla Federico II. Ama la musica e la nobile arte dei telefilm, ma il cinema è la sua vera passione. Qualunque cosa verrà in futuro, spera ci sia un film di mezzo. Magari, in giro per il mondo. Attualmente frequenta un Master in Cinema e Televisione.

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