Chi fu quella ragazza molto bella?

L’intero romanzo di Julián López, Una ragazza molto bella, edito da Polidoro editore e tradotto da Sara Papini, potrebbe riassumersi in questa domanda.

Una finzione autobiografica

L’opera d’esordio dello scrittore argentino, pubblicata originariamente nel 2013, si inserisce in un filone narrativo ben preciso, ossia quello della narrativa sudamericana contemporanea della “seconda generazione” caratterizzata dalla figura del figlio di un desaparecido [1]: tra i tanti, possiamo citare Laura Alcoba con La bambina della casa dei conigli; Ernesto Semán con Soy un bravo piloto de la nueva China e Félix Bruzzone con Los topos (gli ultimi due ancora inediti in Italia); López, però, si distingue dal fatto che la sua non è un’esperienza autobiografica (al contrario degli autori appena citati), bensì si tratta di una pura rielaborazione letteraria della dittatura vista attraverso gli occhi di un bambino: in scena abbiamo una madre militante e il suo figlioletto di sette anni. In realtà, non tutto è propriamente finzione: la prima e più cospicua parte del romanzo è ambientata nell’Argentina degli anni Settanta ed è costituita da un collage di scene intime e private tra madre e figlio, madre la cui perdita aleggia già dall’inizio. Quello che leggiamo in queste prime pagine tocca personalmente López, il quale, proprio come il protagonista della sua opera, ha perso la madre da bambino. Come racconta in un’intervista:

Per me è stato determinante crescere senza una madre; ha avuto un effetto diverso in ogni tappa del mio sviluppo, ma l’ho sentita sempre accanto a me. Per me era congeniale che il romanzo recuperasse quei piccoli momenti privati tra madre e figlio, e che mostrasse come il mondo di lui si rompesse dopo la scomparsa di lei. Se penso alla morte di mia madre, è stata una morte civile. Probabilmente, per un figlio che ha perso la madre a causa del terrorismo di stato si aggiunge una dimensione supplementare. Ci sono altri figli che hanno vissuto la stessa esperienza e nella ricostruzione della memoria di un paese c’è un riconoscimento collettivo.

Le conseguenze di una perdita

Nella seconda e ultima parte del romanzo, che occupa le ultime trenta pagine circa, ci troviamo di fronte a un salto temporale: d’improvviso il narratore è adulto e deve fare i conti, tuttora, con la perdita della madre; ma, soprattutto, con le sue conseguenze: una fra tutte, l’impossibilità di amare.

Non mi immagino senza Fabiana. Scopiamo bene e questo risolve tutto. Non ne sento mai la mancanza; se non ci vedessimo più penserei a lei come alla brava ragazza che è, mi farei le seghe ricordando la mia faccia che si scontra contro il suo ventre, mentre le apro le gambe deciso e pazzo d’eccitazione, diretto ad annusarle la figa, a sfiorarla con il dorso del naso, con tocchi minimi e ritirandomi, tornando a quel punto con più urgenza, con ordini precisi e brevi, sempre più presenti. Adoro scoparla, mi fa impazzire sentirla, sollevarle i fianchi e vederla inarcarsi sul letto quando la penetro a fondo.
Ma non ne sento la mancanza, non ne sento mai la mancanza.

C’è anche una differenza stridente (forse voluta) tra la prima parte e l’epilogo: se per tutto il romanzo l’autore ci ha abituato a una prosa delicata e a tratti lirica, in quest’ultima parte il linguaggio diventa in alcune parti diretto, volgare. La controparte di questo tratto, però, è dato dal modo tramite cui fronteggia la perdita della madre, ovvero la letteratura. Con i libri, il narratore ha un rapporto di odio e amore: alla fine della prima parte, il bambino giura di non leggere mai più un libro dopo la perdita della madre; da adulto, però, non solo legge (ma lo fa per rifugiarsi dalla realtà), ma scrive (anche se viene usa il termine “scarabocchio”). Sente il bisogno di trovare il suo rituale, la sua storia, ancora così attaccata a quella ragazza molto bella che, ancora, sembra non riuscire a cogliere nella sua pienezza. 

L’ellissi della storia

La caratteristica principale dell’opera (che qualcuno, però, potrebbe non gradire) è il suo procedere tramite ellissi: il non detto in questa storia pesa quasi quanto il detto. Anche se il lettore se lo immagina, non ci dice mai dove andava la madre quando lasciava suo figlio dalla vicina Elvira; la scomparsa vera e propria della madre, scena che il lettore aspetta già dalle prime pagine, è mostrata solo tramite la descrizione dell’appartamento in rovina. È l’autore stesso a spiegare il perché:

Sì, la mia sfida era come scrivere politicamente degli anni Settanta, come raccontare una storia leggibile solo tramite un sistema di veli. Per questo non era mio interesse dire Monte Chingolo, bensì Unidad Viejo Bueno […]. Il romanzo è colmo di simboli velati, segni di un’epoca che, almeno penso, non è necessario averci vissuto per capirli.

In conclusione, il testo, sebbene appartenente a un determinato contesto storico e narrativo, in realtà non vuole fare da exempla della vita delle vittime del terrorismo di stato: forse, riformulando quanto detto sopra, è la rielaborazione di un lutto o, come l’ha definita una critica dell’opera di López, una lamentatio.

Giovanni Palilla

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[1] Ros A. (2012): The post-dictatorship generation in Argentina, Chile and Uruguay. Collective memory and cultural production. New York: Palgrave Macmillan.

[2] Logie, I. (2016): “Una muchacha muy bella de Julián López, o el gesto reparador de la escritura.” In: Acta Literaria 52, pp.59-79.

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