Sbaglio e Geomag in “Omissis” di Carlo Bellinvia

Che la metapoesia possa correre il rischio di allontanarsi troppo dalla realtà vissuta, di astrarsi e quindi indebolirsi, è un dato di fatto. Tra i molti meriti, Omissis di Carlo Gregorio Bellinvia (Arcipelago Itaca, 2021) ha anche quello di progettare una scrittura che mira dritto al racconto del «trauma» (come evidenzia Davide Castiglione nella corposa prefazione) e che, contemporaneamente, tiene dentro il discorso anche una riflessione sui mezzi tramite cui il racconto stesso si compie – cioè la lingua e il verso.

Ordine e prisma

Dal momento che la raccolta è divisa in tre sezioni molto definite e distinte, la commenterò seguendo passo passo questa impostazione. Del resto, nella prima parte, Dubbi grammaticali, emergono già con forza alcune componenti fondamentali della scrittura dell’autore, come – innanzitutto – lo stile franto e breve, sviluppato in micro-strofe di uno, massimo due versi. La poesia di Bellinvia assomiglia a una struttura di Geomag, quei vecchi giocattoli magnetici composti da palline metalliche e cilindri calamitati: si organizza geometricamente, ogni verso è una piccola unità (fonica) che attrae naturalmente la successiva, tramite enjambements, pause, assonanze («Pronome è soffiare / una bolla nell’abbandono // di un luogo, se non altro // che una bassissima / carica di me, una durata // finita […]»).

Dal punto di vista tematico, poi, la prima è proprio la sezione più ripiegata sul mezzo base della poesia, ovvero sulla lingua. Ogni poesia è infatti dedicata a una parte del discorso grammaticale (Nome, Pronome e così di seguito); ma la forza di Bellinvia, qui, sta proprio nel gonfiare il dispositivo metaforico “scolastico”, in certo senso intellettuale, e nel farci entrare una coscienza scossa, un orlo sollevato («[…] invece io sono // un numero umano nel pieno / zeppo dell’umanità, guarito // un decennio dopo // dai miei polmoni»). Il piglio metalinguistico non si riduce insomma a scoperta di se stesso ma diventa a sua volta veicolo di qualcosa: Castiglione parla della grammatica come «impalcatura concettuale che dà ordine al magma psichico», e allora, pensando ancora al Geomag, intuiamo la natura prismatica dei testi di Bellinvia, che nascono nel modo di un verso piramidale e nell’idea di una poesia che interpreta la vita proceduralmente, con ordine.

Restrizioni e premesse

La scrittura di Bellinvia è dunque anche una scrittura “stretta”, nel senso che lega con architetture solidissime le proprie parti e dà mostra che ogni tassello possa essere collocato solo lì, dove già si trova. Ciò diventa ancora più evidente nella seconda sezione, Sillogismi dell’amore perso, in cui si opta per un verso più disteso e una strofa più lunga. Qui il dialogo della poesia con il pensiero si fa ancora più fitto, visto che la prima simula la modalità più tipica del pensiero logico in filosofia – appunto, il sillogismo.

I testi di questa sezione sono infatti tutti strutturati in due strofe: nella prima i versi, segnati dalle lettere dell’alfabeto, fanno da premesse al sillogismo; nella seconda le premesse vengono sviluppate tematicamente e narrativamente fino a costituire un’unità (di strofa e di significato), che corrisponde alla conclusione, alla verità acquisita dopo un ragionamento. Come nel caso delle categorie grammaticali, anche qui uno strumento “tecnico” della lingua e della logica è ridestinato a modus poetico, dunque disarcionato dalla sua funzionalità deduttiva di partenza e rimesso al mondo come plasma, origine di senso.

Tuttavia, rispetto a Dubbi grammaticali, qui assistiamo a un passo in avanti: al pari della prima sezione, l’orizzonte metalinguistico è iniettato dell’esperienza del «trauma» che nota Castiglione («[…] Smettono / le mani di fare, la voce pesa / sull’economia in crisi della bocca. / Sono povero e lontano. […]»), ma la specificità del sillogismo apre spazi ulteriori, dal momento che – naturalmente – esso non si compie “regolarmente” come si compierebbe all’interno di un trattato di filosofia. Bellinvia, insomma, espone il procedimento logico all’ambiguità della lingua poetica – come in Sillogismo 10, tutto giocato sui «bulbi», che possono essere degli occhi, delle piante, delle lampadine – lo sabota dall’interno e soprattutto immagina la poesia come qualcosa che si solleva a partire da una serie di premesse. Stringenti e rigide, ma scoperte al fondo contradditorie, tradite e – proprio per questo – convertite a leve poetiche.

Le chiavi e lo sbaglio

Anche la terza sezione, infine, raccoglie poesie-congegno in cui si percepisce sempre chiaramente il controllo dell’autore sulla materia linguistica. Anzi, direi che più delle altre parti, Trenta mandate di chiave – così il titolo – fa emergere l’ambiguità dei giochi architettonici bellinviani, delle “chiavi”, appunto, che sono strumenti di apertura (si vede nel gusto anagrammatico dei titoli, per esempio, nonché nella già sottolineata struttura geometrica dei testi), ma anche di chiusura, gabbie.

È in questo lungo finale che vediamo più nitidamente come interagiscono il «trauma» e la costruzione poetica, così solida e studiata. Il corpo nella sua caducità e nel suo limite, innanzitutto, è argomento ricorrente: lo troviamo ad esempio in II. sbarco («[…] io non sono // mai stato sulle mie gambe // nude più lontano dal cielo // di così. […]») oppure in XXV. sarco- («[…] Con il sonno ordinavo, / ai piedi del letto, gli organi / e le parti collezionabili / nei rispettivi canopi»). E questa ricorrenza si tira dietro una ricorrenza della «colpa», dal momento che il difetto del corpo è caricato sulla coscienza, secondo una trafila analogico-linguistica che, come evidenzia Castiglione, passa attraverso il «sacro».

Ma oltre che nel concetto di «colpa», è in quello di «sbaglio», a mio avviso, che scorgiamo una pista d’interpretazione importante, direi centrale; ovvero il nodo che lega la scrittura architettonica al problema morale, così profondamente penetrato nel corpo. «Sbaglio», infatti, che torna più volte nelle Trenta mandate, è, sì, sinonimo di colpa, da un lato, ma dall’altro anche concetto più malleabile, non legato esclusivamente alla sacralità e all’espiazione. Uno sbaglio può essere, insomma, anche uno sbaglio pratico, un gesto mal comandato, un errore. E, ad esempio, un errore di scrittura: «e per evitare di apparire / neutro al male // sbaglio lettere, ricevute, / firme varie […]».

È la poesia, dunque, la prima e più ustionante tecnica di espiazione. E invece che abbandonarsi a un delirio scomposto che pure sarebbe possibile (e facile) a partire dal trauma, l’autore si dedica a questa espiazione attraverso la geometria e lo sforzo della concentrazione, in cui rintraccia una sfida piscologica, linguistica e corporea al male. Sfida che, però, non coincide con il sorpasso definitivo del trauma, bensì – come si vede dagli ultimi versi citati – proprio con la partecipazione ad esso, sua accettazione e studio, di cui lo sbaglio-errore è parte e contraltare. La costruzione del castello di una poesia-Geomag, insomma, diventa la veglia al cospetto di questo male, l’esercizio sublime e nervoso di un essere-difronte-a.

Antonio Francesco Perozzi

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