Incubi letterari: Frankenstein

Conobbi Frankenstein e la sua creatura al liceo. La professoressa di filosofia ce ne parlò in merito alla ricezione del rapporto uomo-natura durante i secoli. In quel periodo, Stephen King era per me, nomen omen, il sovrano indiscusso delle mie letture. Se nessun personaggio moriva, non era un libro che meritasse la mia attenzione: questo il Giovanni lettore di sedici anni. Recepii Frankenstein in quel periodo senza troppa curiosità, troppo “mostro alla vecchia maniera” per i miei gusti del tempo.

Un’immagine del Frankenstein di James Whale (1931)

Il secondo incontro

Poi venne l’università. Mi ero appena iscritto a lingue, stavo proprio uscendo dalla segreteria quando, davanti al cancello della facoltà, vidi la malefica bancarella con i libri a tre euro. Tra tutti, immediatamente, come se avessi già percepito la sua presenza, la mano andò da sola e prese Frankenstein di Mary Shelley. Avevo diciott’anni. Allora non ero un accumulatore seriale di libri come adesso, non badavo fin troppo alla copertina (infatti era un’edizione di poco conto, tradotta da chissà chi) e, soprattutto, compravo e leggevo. Tuttavia, vuoi l’ambientarsi nel pianeta università, vuoi le nuove conoscenze, il caro Frankenstein dovette prendere un po’ di polvere sul mio comodino prima di essere letto.

Dopo qualche mese dall’acquisto, successe che la professoressa di letteratura inglese (una tipina tosta con i capelli rossi che indossava calze a rete e stivaloni neri e ammiccanti), ci disse della genesi del Frankenstein. Ovvero della notte tempestosa trascorsa a Ginevra nella Villa Diodati a leggere storie di fantasmi della letteratura tedesca, insieme a Percy Bysshe Shelley, Lord Byron, John Polidori e Claire Clairmont. Da quella notte, alcuni di loro trassero ispirazione per scrivere racconti di fantasmi: così nacque il Frankenstein. La storia di come fu partorito quel romanzo mi fece ricordare della sua presenza sul mio comodino.

Locandina di Gli orrori di Frankenstein di Jimmy Sangster (1970)

Una notte tempestosa

Infine, la lettura: mi trovavo a Catania, nella mia cameretta a piazza Stesicoro in un vecchio, freddo e antico palazzo all’ultimo piano. Stavo preparando i primi esami, avevo studiato fino a tarda notte. Come spesso capita quando ci si applica per molto tempo, il mio cervello non ne voleva sapere più di spegnersi. Quindi, nonostante fossi a letto e al buio, non riuscivo a chiudere occhio. Per di più, era una notte buia e tempestosa (cit.), pioveva davvero tanto e la luce dei lampi entrava di prepotenza dalla finestra malchiusa (ho già detto vecchio palazzo, vero?). Girandomi e rigirandomi sul letto, un lampo illuminò proprio Frankenstein. Provai ad accendere la luce: non c’era corrente.

Presi delle candele che avevo comprato qualche giorno prima: in una notte tempestosa, come quella in cui fu concepito, lessi a lume di candela Frankenstein di Mary Shelley, e lo lessi tutto in quella notte, dalla prima all’ultima pagina. Sì, mi fece paura, anzi: mi insegnò ad avere nuovamente paura. La frenesia che aveva consumato Viktor mentre stava lavorando alla sua creatura mi sembrava fin troppo familiare. La ricerca delle “parti” per comporre il mostro mi fece ribrezzo. Ma soprattutto, il confronto tra creatura e creatore mi fece accapponare la pelle. Anche se poi, alle sei di mattina con l’alba che si intravedeva dalla finestra, mi ritrovai dalla parte del mostro.

Giovanni Palilla

Frankenstein di Mary Shelley di Kenneth Branagh (1994)

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