Racconto: Formica-IO di Deborah D’Addetta

Da un po’ di tempo mi sveglio con un dolore al gomito sinistro.
Mia madre dà la colpa al mio ultimo tatuaggio.
È un dolore-non dolore, una sorta di puntura, come il becco di un picchio intrappolato sotto pelle. Per poter dormire, mi ritrovo a costruire castelli di cuscini e ponti levatoi di lenzuola e a concertare le più strambe coreografie mai viste: la testa al posto dei piedi e i piedi al posto della testa e il busto penzoloni fuori dal bordo del letto o restare in piedi come i cavalli.
Si deduce facilmente che le mie ore notturne siano tutto tranne che notturne.
Di giorno il mio gomito è buonissimo: non cigola, non dà cenni di vita, sembra proprio morto, come dovrebbe essere ogni altro organo sano e integro, perché se qualcuno di loro comincia a farsi sentire, a uscire fuori dai propri confini, allora c’è qualcosa che non va.
Ecco, io ho iniziato a preoccuparmi perché il mio gomito è morto di giorno e vivo di notte. Ho chiesto consiglio a mia madre e me ne sono pentita immediatamente: ha il puntuale potere di trasformare dei pareri desiderati in sentenze non gradite. È un vizio il suo, un tormento interiore germogliato quando ha scoperto che quello che volevo fare nella vita era scrivere. Forse saperlo è stato uno choc talmente grande per lei, da sempre convinta di poter decidere la mia strada, che quasi mi ha fatto tenerezza.
«Alla tua età, ancora con queste porcherie» ha detto, «invece di dedicarti a cose più serie».
Se il riferimento è stato al tatuaggio o alle parole dei miei racconti non ha importanza. Mi sono stancata di chiedere delucidazioni circa quello che lei intenda per cose più serie. Però il gomito mi fa stare veramente in pensiero. E odio ammetterlo, ma il dolore è iniziato proprio il giorno dopo l’appuntamento con il tatuatore: forse qualche nervo sensibile non ha gradito l’intrusione e ha deciso di sconfinare per protesta.

*

È una linea sottile che recinta l’osso del gomito. Il tatuaggio, dico. Un cerchio fine, ci avrà messo un quarto d’ora a farlo, quindi non capisco cosa possa essere andato storto.

*

Un’altra notte insonne.
Il dolore è insopportabile, allora mi sveglio, accendo la luce e controllo il gomito: è gonfio, come volesse scoppiare da un momento all’altro.
Mi domando se non sia il caso di chiamare il medico.
Poi la pelle comincia a pulsare: una curiosissima sensazione mi avvolge l’intero braccio, come se patisse la vicinanza di una fonte di calore, e dal gomito, proprio dall’osso, vedo venir fuori degli esserini neri, simili a formiche.
Di primo acchito inorridisco, scuotendomi. Quei mostriciattoli cominciano a sparpagliarsi sul mio letto, avvicinandosi e allontanandosi, cambiando di posto e di verso. Io strizzo gli occhi, poi mi avvicino e mi rendo conto che non sono formiche, ma lettere, di quelle che vengono fuori dal rullo delle vecchie macchine da scrivere.
Non so cosa fare. Mi convinco quindi che si tratti solamente di un incubo e le assecondo. Se c’è qualcosa che ho imparato nella mia vita è proprio quella di assecondare le lettere. Imparato e fatto finta di dimenticare, di proposito.
Come compiaciute dalla mia decisione, prendono a espandersi piano piano, trasformando le mie lenzuola in un foglio di carta gigante.
Non sei m [spazio] ta.
Leggo, ma non capisco. Mi gratto in testa, il gomito ancora lievemente palpitante.
«Non sei… cosa?».
Le letterine si muovono, rompendo gli schemi, disperdendosi per poi riunirsi sotto altra forma.
Scuoti qui.
Eh? Mi guardo intorno: la mia cameretta tutta bianca mi sembra sempre la stessa, il letto sotto la finestra, le tende ricamate, i libri padroni del pavimento, i tappeti muti. Allora se la mia stanza è a posto, controllo me stessa: le gambe pigre, la lieve pancetta, i capelli ricci. Solo alla fine dell’ispezione mi rendo conto del perché il mio gomito stia ancora pulsando: dal mio tatuaggio, da quel maledetto cerchio perfetto, colano fuori altre lettere, asciutte, tenaci.
«Devo scuotere qui?».
Faccio come mi è stato ordinato, spazzolandomi la pelle con delicatezza. Le neonate lettere cascano sulle lenzuola, attirate come calamite dalle sorelle maggiori.
Non sei malata.
Ah.
«È questo che state cercando di dirmi? Che non sono malata? Non ho bisogno del medico?».
Le lettere si agglomerano in un’unica palla nera per poi separarsi e parlare.
NO.
«E allora perché mi fa male?».
Proprio nel momento in cui pronuncio queste parole, mi accorgo che no, non fa più male, il mio gomito è tornato a essere morto, mortissimo.
Esalo un sospiro di sollievo. Poi mi sveglio.

*

«Stanotte ho fatto un sogno strano» dico, infilandomi in bocca una cucchiaiata di cereali, «Anzi, un incubo».
«Perché non ti siedi composta?» gracchia mia madre, «Devi per forza fare colazione in piedi?».
Ho trent’anni e ogni mattina lei mi fa sempre le stesse domande.
Perché fai colazione in piedi?
A messa non ci vai più?
Quando te ne vai da questa casa?
Perché hai questo caratteraccio?
Cos’è che scribacchi tutto il giorno in quella camera?
O forse dovrei dire scribacchiavi, perché da un po’ di tempo non lo faccio più.
Quello che non capisce è che io non ho un caratteraccio, ma due: uno che uso con lei, l’altro con tutto il resto del mondo. Solo che mia madre fa confusione, credendo che io sia fatta solo in una maniera e questa maniera non vada bene a nessuno.
Ecco perché sei sola come un cane.
Chi ti piglierà mai?
Il gomito inizia di nuovo a protestare. Poso la ciotola dei cereali sul tavolo.
«Non sei curiosa di sapere cosa ho sognato?» chiedo, senza una vera voglia di ascoltare la sua replica.
«Di essere forte come Jo March e libera e…com’era? anche immorale».
Riconosco, con una certa vergogna nel petto, che quelle sono parole mie, parole che avevo scritto in quello che credevo essere il mio spazio sicuro, le pagine segrete di una giovane donna.
«Immorale» ripete, l’aria vagamente nauseata.
«Ho sognato che il gomito iniziava a sanguinare lettere e che queste lettere mi parlavano, dicendomi che non sono malata».
«Chi l’ha mai detto?».
«Tu».
Mia madre spalanca gli occhi, mortalmente offesa.
«Se mi dici certe cose, sì… è come se mi dicessi che non sono a posto, che ho qualcosa da sistemare».
Mia madre si avvicina a me: per un attimo, credo voglia abbracciarmi o rassicurarmi. Invece allunga una mano, afferrando la mia ciotola dei cereali.
«Non dire stupidaggini. E cerca di mettere via le cose che sporchi».
«Hai sentito quello che ho detto?».
Mia madre sbuffa, poi alza il tono della voce: lo fa sempre quando non sa come affrontare i problemi.
«Possibile che alla tua età tu ti perda ancora in queste stronzate? Sei peggio di tuo padre, senza un briciolo di concretezza. Non potevi accettare la proposta del mio capo e venire a lavorare in fabbrica?».
Lo dice per davvero. Certe cose sembrano irreali, ma quando le vivi e le ascolti giorno dopo giorno, diventano un’abitudine e finisci per non farci più caso.
«No, bisogna lasciarla esprimere! Così diceva tuo padre… e cosa ti ritrovi ora? Qualche paginetta che è solo carta straccia».
«Mi sono stufata di sentire sempre le stesse cose».
«La porta di casa è aperta» ribatte, dandomi le spalle.
Io esco ovviamente.

*

Il mio tatuaggio ha ripreso a sputacchiare formiche.
Mi ritrovo il letto inondato di chiacchiere nere. Mi spingono mentre dormo, le sento pungermi le costole, solleticarmi la pelle. Alla fine sono costretta ad aprire gli occhi.
«Si può sapere che volete?».
Avverto movimenti striscianti, così accendo la luce, mentre le lettere si aggregano e disgregano.
Non sei malata.
«Me l’avete già detto questo».
Non sei malata.
Le lettere restano al loro posto.
«Ho capito!».
Soddisfatte, si muovono di nuovo, quasi saltellando.
Non sei sola.
Io scoppio a ridere.
«Ma davvero? A me sembra proprio che voi siate cieche».
Le quattro parole si ingrandiscono, arrivando ad occupare quasi un quarto del letto. Il mio sorriso si spegne e a me passa davvero la voglia di stare al gioco.
«È inutile che fate così! Certo che sono sola, lo vedete o no?».
Diventano ancora più grandi, tanto che sono costretta ad alzarmi per fargli spazio.
«Va bene, adesso basta! Mi avete scocciato!».
Mi tuffo sul mio letto, iniziando a dimenarmi come un’ossessa, prendendo a pugni lettere e lenzuola, lanciando cuscini e tirando via coperte e rabbia. Nel frattempo mi viene da piangere, e piango, che altro posso fare?
«Lasciatemi in pace! Lasciatemi in pace tutti!».
Mi accorgo troppo tardi di aver urlato nel silenzio della notte. Mi fermo, cercando di reprimere i singhiozzi, pregando che mia madre non venga a controllare. Il pavimento della mia camera sembra il terreno di una battaglia tra armi bianche, ma non vedo più le mie letterine.
Un momento: da quando loro sono mie?
Resto immobile, aspettandomi di vederle spuntare da sotto le lenzuola da un momento all’altro. Però non spuntano, lasciandomi davvero sola.
«Visto?» dico, amareggiata, «Avevo ragione io».
Prima di finire la frase arriva un dolore lancinante al gomito. Afferro il braccio, poi avverto una spinta prepotente sotto il palmo della mano: dal mio cerchio perfetto inizia a sgorgare una cascata di lettere nere, migliaia, milioni, se non miliardi. Rimbalzano dappertutto, inondando il pavimento, riempiendo ogni spazio vuoto, fin quando non mi ritrovo quasi del tutto immersa in un mare di parole senza significato.
«Non respiro…».
Come risposta, alcune di quelle strisciano verso il muro di fronte a me e compongono un messaggio. Inizialmente non capisco cosa vogliano dirmi. O forse dovrei dire che faccio finta di non capirlo.
Poi mi arrendo all’evidenza.
Noi siamo te. Noi siamo dentro di te. Facci uscire.

*

La mattina dopo mi sveglio in una camera linda e pinta: nessuna traccia di tafferugli, nulla fuori posto, niente messaggi sui muri. Il mio gomito è sempre morto, mortissimo. Decido di restare a letto, gli occhi rivolti verso il soffitto, e mi domando se davvero sia stato tutto un sogno, ma che io l’abbia vissuto o meno, so che il mio inconscio sta cercando di dirmi qualcosa.
E io so cosa.
Quando anni fa mia madre ha trovato “per caso” i miei racconti, quelle storie di gioventù ribelle, affannosa, storie difficili da digerire, è stato quasi automatico smettere di scrivere. Il mio asilo era stato violato e la delusione, la mia e la sua, troppa da sopportare. È venuta a sventolarmeli sotto al naso, tenendoli tra le dita come se scottassero, come se davvero fossero pieni di formiche brulicanti. Mi ha parlato da adulta, da donna senza infanzia, senza adolescenza, venuta alla vita direttamente così, fatta e finita. L’ho invidiata e anche temuta. Ho dovuto smettere.
Chiudo gli occhi e inspiro forte. Mi accarezzo il gomito distrattamente, aspettandomi di sentire quell’ormai familiare calore che mi preannuncia il loro arrivo. Non succede niente però e io capisco che stavolta devo fare tutto da me.
Così mi alzo, gli occhi colmi di sonno interrotto, mi siedo alla scrivania e tiro fuori un vecchio taccuino e una penna. Indugio qualche istante, godendomi la sensazione di adrenalina che sento nel petto. Quando apro la prima pagina trovo quello che avevo dimenticato.
Quando ti sentirai sola torna qui.
Siamo te. Siamo dentro te. Facci uscire.

Deborah D’Addetta

Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

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