Siamo tutti figli del Linguaggio. Streghe di Brenda Lozano

I nuovi interpreti della narrativa latinoamericana da qualche anno stanno ridefinendo il proprio rapporto con la tradizione. Il realismo magico che aveva scandito per tutta la seconda metà del Novecento il successo internazionale degli scrittori e delle scrittrici appartenenti a quell’area geografica, sembra che si stia sempre più mettendo da parte – se non è proprio scomparso – a favore di una nuova codificazione della materia narrativa che sta approdando a originali soluzioni stilistiche e interpretative. Molte delle caratteristiche passate sono mantenute, in particolare la presenza di elementi sovrannaturali (o presunti tali), l’incorporazione di temi leggendari o folklorici, le distorsioni (o alterazioni) temporali, la sovrabbondanza di dettagli sensoriali e l’attenzione ad aspetti sociali e politici dei luoghi in cui le storie vengono ambientate. Ciò che è andato perso, o quantomeno ha assunto una nuova forma, è il risultato finale che, per necessità, si è adattato al racconto della nostra contemporaneità, alla definizione di universi letterari capaci di accogliere ed elaborare più sistemi ideologici e di costruire il proprio sviluppo anche sulle contraddizioni messe in campo.
Gran parte di questa trasformazione sta avvenendo attraverso una nuova codificazione della lingua all’interno dei testi: il Linguaggio è diventato elemento metanarrativo e la sua funzione all’interno delle storie assume, al contempo, sfumature teoriche e narratologiche.
Esempio lampante di questa deriva creativa è il romanzo di Brenda Lozano pubblicato di recente da Alter Ego edizioni nella traduzione di Giulia Zavagna: Streghe.   

In un’intervista per Chilango Brenda Lozano ha dichiarato: «Credo che il linguaggio sia politico e che possa cambiare la narrativa, portarlo all’estremo in questo romanzo è stato una specie di gioco per me: pensare che il linguaggio possa cambiare completamente la vita di una persona o guarirla. Questo per me il massimo grado del linguaggio. Se è in grado di guarire, può fare qualsiasi cosa. Se il linguaggio è onnipotente, allora ha qualcosa dentro. […] Credo nel potere delle parole». 

Streghe è attraversato da due voci che si alternano, entrambe in prima persona: quella di Zoé, giovane giornalista inviata da Città del Messico a San Felipe per indagare sull’omicidio di Paloma, assassinata perché muxe[1], e quella di Feliciana, un’anziana saggia le cui arti curative sono leggendarie nell’intero paese e attraggono persone di tutto il mondo. Due identità, tra loro molto distanti, che nell’incontro permettono una sorta di cortocircuito culturale tra materia colta e linguaggio popolare, tra cultura urbana e rurale, tra prospettive generazionali. A muovere l’azione è l’attività di curandera di Feliciana.

La curanderìa è una pratica molto diffusa in America Latina associabile, per caratteristiche, alle attività dei guaritori sciamanici. Il curandero è una persona a cui la gente si rivolge per guarire dai mali fisici o per scacciare il malocchio. Si presuppone che ognuno di questi guaritori sia dotato di poteri magici, ma nessuno di essi, in teoria, è in grado di sapere come opera: in pratica un curandero sa come agire perché sa come operano le forze della natura.

In Streghe la vita delle due protagoniste si rivela in un costante gioco d’intrecci dove l’iniziale meccanismo d’indagine legato all’uccisione di Paloma viene subito messo da parte a favore del linguaggio che si fa affabulazione, motivo di fascinazione, e sospende le iniziali intenzioni per lasciar posto alle vite di chi la storia la narra. Nelle prime pagine Feliciana dice «[Paloma] Mi ha detto questo si fa così, questo non si fa così, tu porti Il Linguaggio, amore mio, è stata lei a dirmi Feliciana tu sei la curandera del Linguaggio perché tuo è il Libro». E infatti se da un lato queste poche righe indicano l’inizio dell’esperienza da guaritrice di Feliciana – e l’avvio della narrazione – dall’altra ci offrono una chiave di lettura dell’intero romanzo.

Il dispiegarsi delle storie attraverso le voci – del modo in cui parlano e raccontano – delle protagoniste è il vero nucleo di questo romanzo. Sempre nell’intervista a Chilango Brenda Lozano ha dichiarato di aver scelto la parola ‘streghe’ per il titolo perché questo termine, in bocca agli uomini, quando utilizzato, assume spesso una connotazione negativa, cioè va a occupare uno spazio che è quello della violenza. L’autrice ha quindi deciso di vivere quello spazio di violenza e affrontarlo per approdare a un nuovo senso («penso che sia importante girare intorno a tutte quelle parole che hanno una carica da macho e occupano quegli spazi. Un po’ così, se lo spazio della strada è lo spazio della violenza, occuparlo di notte o uscire di notte è un po’ come tornare dove abbiamo subito violenza»). Che sia la voce istruita, educata, a tratti colta e cittadina di Zoé o quella istintiva, titubante, reiterante e contadina di Feliciana la violenza tira fuori i tratti distintivi e le contraddizioni del contesto sociale e culturale in cui i personaggi di Lozano si muovono. Il Messico si completa nella parlata del romanzo, nel senso che ogni aspetto del vivere viene incluso nella narrazione: la famiglia, il lavoro, la salute, le ambizioni, la politica, la criminalità, i rapporti tra generazioni, le questioni di genere e molto altro è assorbito dalla penna di Lozano a servizio della storia raccontata.

«Tutti siamo figli del Linguaggio, tutti veniamo dal Linguaggio, e se moriamo torneremo a lui».

Quello della lingua è, però, solo uno degli aspetti che fa di Streghe un romanzo riuscito. Lozano riesce in quest’opera a raccontare attraverso un particolare principio di sorellanza – che lega per genere e non per sangue – la condizione delle donne, le ambizioni di chi vuole vedere riconosciuto il proprio lavoro o il successo di chi, senza volerlo, sapendo leggere i segni della natura, arriva a godere di fama nazionale. Un risultato che l’autrice riesce a ottenere applicando un solo principio di verità: quello che vuole che le parole siano riflesso del reale e non della finzione.

Antonio Esposito


[1] Per la cultura degli Zapotechi di Oaxaca (Messico meridionale) il muxe è una persona a cui è stato assegnato a livello individuale il genere maschile anche se nell’abbigliamento e nella cura dell’aspetto assume comportamenti associabili al genere femminile. In alcuni zone del Messico sono percepiti come un terzo genere sessuale.

Antonio Esposito nasce a Napoli nel 1989. È laureato in Lettere e specializzato in Filologia moderna. Attualmente scrive racconti, pianifica romanzi e insegue progetti editoriali di vario genere. Da editor collabora con la casa editrice Alessandro Polidoro, dove dirige anche la collana dei Classici.

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