Halston, l’uomo che vendette il suo nome

Il nome Halston dirà poco o niente al grande pubblico, e ancor meno a quello italiano, ma a qualcuno cresciuto negli anni Settanta e Ottanta negli Stati Uniti potrebbe ricordare il favoloso Studio 54 di New York e il nome di uno stilista noto per la sua linea di abbigliamento, accessori e profumi, nonché per gli svariati spot di cui lui stesso fu protagonista. Uno stilista egocentrico amante della vita mondana newyorchese: questo è quanto può aver convinto Netflix a dedicargli una miniserie e questo è ciò che dovrebbe convincere gli spettatori a guardare i cinque episodi disponibili da maggio sulla piattaforma. A ciò aggiungiamo un nome che è più che una garanzia e non ha bisogno di presentazioni: Ryan Murphy. La sua serie Ratched è una delle più viste dell’anno scorso, mentre questa sua ultima fatica è passata praticamente inosservata, almeno in Italia. Difficile stabilirne le cause: la qualità di certo non conta, forse il problema è da ricercare nella trama, che non brilla di certo per originalità. Siamo di fronte al biopic di uno stilista americano sconosciuto che raggiunse il successo negli anni Settanta. E a parte Ewan McGregor nei panni del protagonista, il cast non offre altri nomi di richiamo. Qui in ogni caso ci soffermeremo sulla qualità e sulla ragion d’essere di questa nuova serie.

Ewan McGregor nei panni di Halston

Ryan Murphy, ormai un brand riconoscibile

Partiamo dal fatto che Ryan Murphy ha un lungo e assai fruttuoso contratto da onorare con Netflix, ragione che l’ha spinto a lavorare a ritmo frenetico: negli ultimi dodici mesi, nell’ordine, ha contribuito alle serie Hollywood, Ratched, The Politician (seconda stagione) e i film The prom e The boys in the band. Tra questi l’unico è Hollywood ad essere completamente suo in qualità di creatore, sceneggiatore, regista e produttore. Per quanto riguarda Halston, ne è “soltanto” produttore esecutivo e sceneggiatore (di 4 episodi su 5). La regia è affidata a Daniel Minahan, regista dal curriculum incredibile (ha diretto alcuni episodi di serie come American Crime Story, House of Cards, Game of Thrones e True Blood solo per citarne alcuni), mentre alla sceneggiatura di tutti gli episodi ha lavorato Ian Brennan, collaboratore di Murphy dai tempi di Glee. Il mondo della moda sembra affascinare Murphy, che ha dedicato a Versace la seconda stagione di American Crime Story e che ha trasformato in una sfilata di moda Ratched, serie che molti si aspettavano più cupa. In quanto alle biografie, ci ha dato un esempio superbo con Feud. In Halston ci racconta la storia di uno stilista omosessuale in voga nell’America a cavallo tra anni Settanta e Ottanta. Moda, sesso e lusso: tematiche e atmosfere particolarmente care al nostro Murphy, che ha saputo creare del suo stile ormai una sorta di genere, riuscendo tuttavia a sorprendere e spiazzare sempre il proprio pubblico (anche con opere meno iconiche come The Politician o Hollywood, per rimanere a titoli recenti).

Il vero Halston e Liza Minnelli

Un biopic dal sapore di déja-vu

Di fronte a Halston, a sua volta ispirato dalla bografia scritta negli anni Novanta da Stevan Gaines, purtroppo si ha già dal secondo episodio una sola domanda: era necessario? Perché se da un lato è un piacere ritrovare Ewan McGregor in un ruolo di spessore, così come è sempre un piacere per gli occhi ogni produzione targata Murphy grazie al contributo di scenografi, costumisti e direttori della fotografia eccelsi, dall’altro ci ritroviamo davanti all’ennesimo biopic che racconta ascesa e caduta di una persona di successo, con tutti, ma proprio tutti i cliché del caso: infanzia difficile (qui a dire il vero appena accennata, ma comunque presente), ambizione sfrenata, dipendenza da droga e sesso, successo trionfale, presunzione ed inevitabile solitudine e caduta finale. Per non parlare del messaggio, sempre identico: se lo puoi sognare lo puoi fare, basta credere in sé stessi. E così assistiamo all’ennesimo racconto di un american dream, di un self-made man capace di costruirsi un impero. E anche di fronte a questo progetto l’insegnamento che ne traiamo è: basta credere in sé stessi, crederci tanto, tantissimo, fino a diventare presuntuosi e rasentare il ridicolo e così diverremo chi vogliamo. Perché infatti del talento vero e proprio di Halston vediamo poco: sono i suoi collaboratori a dargli le idee migliori, collaboratori di cui si approfitta e poi abbandona o viene da loro abbandonato. Ai primi appartengono Joel Schumacher (sì, il regista di Batman Forever e Il cliente, che mosse i primi passi come stilista) o Elsa Peretti, autentica musa di svariati talenti, da Helmut Newton a Francesco Scavullo. Il resto lo possiamo immaginare: il successo dà alla testa, i soldi sembrano non finire mai, la droga e il sesso sono sempre più necessari e gli amanti sono sempre sbagliati e approfittatori.

Intenzioni poche chiare

Alla fine di queste quattro ore di visione, pur scorrevoli e piacevoli, rimane un quesito: qual era lo scopo di Ryan Murphy? Elogiare la figura di Halston? Non sembra, anzi. Tant’è che i (lontani) familiari se ne sono (giustamente) dissociati in quanto il protagonista non fa affatto una bella figura. Ricordare un’effimera, se pur di enorme successo, personalità della moda? Può darsi, ma non sembra quello il punto. Non è nemmeno una critica a quell’american dream che rende tutto possibile, perché se da una parte vuole mettere in scena un protagonista non proprio simpatico, come a dimostrazione che non può esserci successo senza arroganza e meschinità, ma anche senza solitudine e vizi, e quando siamo a un passo dall’affondo definitivo, il nostro protagonista si redime, e rimane il grande stilista che ha venduto il suo nome per centinaia di milioni di dollari per poi pentirsene.
In sintesi, questo perenne alternarsi di elogio e critica e la mancanza di una direzione e di un punto di vista chiaro sembrano frutto di un’indecisione di fondo degli stessi autori. Restano in ogni caso i costumi, naturalmente bellissimi, le scenografie super lussuose, le atmosfere degli anni Settanta, numeri musicali interessanti (perfino due canzoni in italiano, una cantata dall’americana Dusty Springfield e l’altra da Gigliola Cinquetti). Bravi poi tutti gli attori: a partire da Ewan MacGregor, poi da segnalare Krysta Rodriguez nei panni di Liza Minnelli, Rebecca Dayan in quelli della musa Elsa Peretti e David Pittu nel ruolo del migliore amico-socio. Ma anche qui, nulla di cui sorprendersi: le produzioni di Ryan Murphy ci hanno abituati a interpretazioni sublimi e questa volta dobbiamo “accontentarci” di ottime performance. Insomma, ci saremmo aspettati qualcosa di più originale, audace e significativo e non ci bastano buone performance, favolosi costumi e ambientazioni da sogno per farci sognare e coinvolgere.

Carlo Crotti

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