L’isola che ti porti dentro
Edwidge Danticat è una delle voci più imponenti della letteratura contemporanea. Nata ad Haiti, a dodici anni si trasferisce negli Stati Uniti. Sem editore ha pubblicato la raccolta di racconti La vita dentro, tradotta da Velia Februari, otto racconti che attraversano l’identità travagliata di chi appartiene all’isola. Ha collaborato con il Corriere della Sera e la sua opera La fattoria delle ossa, le è valsa il Premio Super Flaiano.
Haiti, il punto d’incontro
Negli otto racconti di Edwidge Danticat, un’isola è allo stesso tempo desiderio e sogno. Se è vero che Haiti è un’isola dalla quale i protagonisti cercano di allontanarsi, è anche vero che quando questo avviene, non fanno altro che attendere il giorno del ritorno. Le protagoniste delle otto storie della raccolta, sono donne che attraversano, silenziosamente, quasi di soppiatto, la propria esistenza. Hanno coraggio è indubbio, ma restano ancorate a promesse fatte ma non mantenute, scoprono la dissonanza fra le radici che abitano in loro e il sottile dolore della separazione, attraversano con il corpo una frattura interiore che si rivela una simbiosi con la spaccatura provocata dal terribile terremoto del 2010. L’isola è Haiti, ma è anche quel luogo appartato che continua a respirare all’interno dei personaggi di questa raccolta, è forte in questo, il messaggio di Edwidge Danticat, è quel mondo interiore che forgia una nuova lingua, che si esercita a scambiare il proprio ruolo con quello di qualcun altro, alimenta quella vita che c’è dentro di loro anche quando è l’isola stessa a rigettarli oltre i suoi confini.
Aurevoir, papa
Quando la protagonista di “Ai vecchi tempi”, apprende dalla madre l’identità di suo padre e allo stesso tempo che lui sta morendo, si trova seduta a un tavolo del ristorante Nadia, in cui è cresciuta, «continuavo a chiedermi: perchè le persone credevano di doversi dare notizie che cambiavano la vita davanti a un piatto? Temporeggiavano forse in attesa del momento giusto, quando l’altro sarebbe stato seduto, in un luogo pubblico, con la bocca troppo piena per potersi mettere a urlare?». Forse uno si aspetterebbe di vederla salire sul primo aereo e correre al capezzale del padre morente, ma lei non lo fa, lascia passare del tempo e quando decide di andare a Miami, la città che per lei rappresentava il mare, lo fa perchè ha deciso di mettere la parola fine davanti alla parola fuga. La protagonista che per quasi tutta la vita ha immaginato la morte del padre avvenire «in una rapina, in un attacco terroristico, con proiettili, granate, mine di terra, morsi di serpente, per annegamento, per overdose», quando si troverà a pronunciare “aurevoir, papa”, quella parola “papa”, proprio per lei che si è sempre chiesta che effetto le avrebbe fatto pronunciarla, quella parola cambierà significato, sarà trasfigurata, sentirà addosso, infine, la lunga stanchezza di chi fugge da tutta una vita, al confronto con se stesso: «quella sarebbe stata la prima e ultima volta in cui avrei chiamato papa l’uomo che sarebbe stato il mio vero padre».
L’isola è una lingua
Sull’isola ci sono parole che scandiscono le cose che accadono. Al centro del racconto “Amami e poi lasciami” ci sono delle fedi nuziali, che in realtà non hanno valore (sia per il materiale utilizzato per realizzarle, sia per ciò che dovrebbero simboleggiare), sono degli oggetti che vengono regalati dagli uomini stranieri o locali alle donne che incontrano. Mélisande forse non sa che “renmen n, kite m” (amami e poi lasciami) sono parole create per mettere in guardia le giovani donne come lei, «ne avevo visti moltissimi alle dita delle ragazze che venivano a bere al bar dell’albergo per abbordare gli ospiti […] ospiti che sostenevano di amarle e regalavano loro un anellino uguale a quello, a pegno della propria fedeltà e poi le abbandonavano, lasciandole appese a qualche vuota promessa, per non tornare mai più». Quando Mélisande fa ruotare sul suo dito uno di questi anelli, quello che sente è un unico e fatale desiderio espresso che sa non potrà mai realizzarsi. Il suo corpo scosso dalla febbre alta, ormai impalpabile come “carta, stoffa o aria”, allontanatosi dall’isola, ha dimenticato come questa sia in fondo, l’unico antidoto alle vane illusioni di salvezza.
2010, disegnare una ferita
Il terremoto del 2010, di magnitudo 7 e che ha provocato 230mila morti, è stata una vera linea spartiacque dell’isola, una ferita insanabile rimasta attaccata a ogni abitante senza sapere come ricucire il proprio rapporto con il luogo che ha cercato di inghiottirli. Anika rivede il proprio amante dopo sette mesi, dopo il terremoto in cui lui è rimasto ferito e ha perduto la moglie e la figlioletta. Anche se Anika si trovava a Miami quando c’è stata la prima scossa, e poi sono seguite le altre, anche se per lei apparentemente nulla sembra essere cambiato, vive ancora in quell’appartamento in cui lui andava a trovarla e dal quale si vede la MacArthur Causeway e la baia di Biscayne; in realtà Anika combatte con l’idea di essere uno dei torti che lui probabilmente non si perdonerà mai. Per farlo ha iniziato a disegnare uccelli, la sua personale parola fine a una storia spezzata per sempre: «aveva iniziato a ritrarre uccelli antichi milioni di anni perché non aveva idea di come disegnare o dipingere quello che desiderava raffigurare davvero: i terremoti. I suoi disegni nascevano come schizzi, ma non andava mai oltre. Quando si rappresenta un terremoto, si dipingono mostri di terra che fagocitano il suolo? Case distrutte? Corpi insanguinati e privi di vita? Oggetti personali – magliette, abiti, scarpe, pettini e spazzolini – sparsi tra le macerie? […] Si scrivono messaggi sulla tela, casomai a qualcuno sfuggisse il senso dell’opera? O si disegna l’uomo amato, la moglie morta, la figlioletta, anche lei morta?».
Haiti, crudeltà e speranza
Il giorno in cui Neah parte per Port-au-Prince, Lucy sa di avere un ruolo in questa scelta. Neah parte dopo aver visto un opuscolo di un’associazione che aiuta le donne vittime di violenza, che proprio Lucy le ha mostrato. Ma la verità è che Lucy non avrebbe mai avuto il coraggio di lasciare Miami per aiutare quelle donne, non sarebbe mai partita, consapevole delle proprie paure e di quei legami di cui non vuole ancora sentire il richiamo. Neah invece parte. Una distanza fra le due donne che non fa altro che accentuare le loro diversità: Neah abituata a viaggiare; Lucy cresciuta con due genitori che si erano incontrati lungo le coste della Georgia o della Florida mentre raccoglievano ortaggi e trovavano rifugio negli alloggi degli agricoltori o su brande dietro alle stalle. Quando Neah torna, alcune settimane dopo, è irriconoscibile. Porta con sé incubi e un coinvolgimento nelle storie degli altri doloroso, sapendo però, che l’isola restituisce una crudeltà autentica che si prova direttamente sul corpo, ma anche una certa speranza.
In questi otto racconti la parte più nostalgica di queste donne dialoga con una vita interiore, alle volte messa in secondo piano, taciuta, repressa, illusa. È una lingua a parte. Un ponte di contatto che l’autrice costruisce con i suoi personaggi, una lingua di scambio, un dizionario che è una bussola per orientarsi. Quello che fa Danticat, con una scrittura vibrante, essenziale e aspra è continuare ad aprire un dialogo fra le intenzioni di fuga che coinvolgono tutti e i sentimenti del ritorno; racconta i riscatti più semplici, quelli che chiedono la propria vita indietro, quella vita dentro che spinge per svoltare.
Paola Zoppi