Corrispondenze alla deriva
Alla fine del lockdown, una delle prime pubblicazioni uscite è La baia di Cynan Jones (66thand2nd, traduzione di Gioia Guerzoni), autore gallese che narra la deriva di un uomo sul kayak uscito per disperdere le ceneri del proprio padre e che si ritrova a ricercare se stesso. Nel 2017, con il racconto The Edge of the Shoal, tratto da La baia e pubblicato sul “New Yorker”, ha ricevuto il Bbc National Short Story Award.
Un uomo sul kayak sta andando alla deriva. Ferito e con una forte amnesia, non ricorda perché si trova lì e sull’imbarcazione pochi strumenti possono aiutarlo a tornare a riva. È un uomo che si trova a ricostruire un’identità perduta, ma che avverte la durezza con cui la natura si abbatte su di lui. Uscito per pescare e per disperdere le ceneri del proprio padre (lo apprendiamo fin dall’inizio) sarà una tempesta a disperdere i tasselli della sua storia e portare al largo l’imbarcazione:
«Il primo lampo cade in un punto oltre l’orizzonte. […] Il tuono arriva pochi istanti dopo, e sente una fitta allo stomaco. […] Si mette d’istinto a contare, valuta la distanza dalla terra. Un altro battito di luce. La costa è ancora una sottile linea color legno. […] E poi sente un rombo basso. Il tonfo di un grosso peso che atterra. Un lento squarcio nel cielo».
Un animo circondato da una natura matrigna
La relazione fra l’uomo e la natura che lo circonda, va ben oltre. L’intenzione dell’autore di usare una superficie mobile, per non ancorare la narrazione a un luogo preciso, si avverte quando quella stessa acqua, di fronte alla quale è cresciuto Cynan Jones, si trova ovunque: «sopra, sotto, dentro e fuori», come ha sottolineato nell’intervista con Gabby Willcocks della Falmouth University.
La percezione di quella natura si riflette nell’animo dell’uomo alla deriva, sente i tuoni che annunciano il temporale e avverte delle fitte allo stomaco; guarda la farfalla aprire e chiudere «le ali nel sole. Lui apre e chiude la mano buona». Lentamente, guardandosi intorno, ricordi parziali affiorano alla mente sotto forma di sensazioni, come quando indossa il maglione e «gli accende qualcosa in testa, ma è come il tasto di un piano che tocca corde inesistenti». Qualcosa di primordiale si affaccia in lui dall’istinto di mettere il piede a terra, quando tenta di risalire sul kayak, alla necessità di mettere in salvo la farfalla e la bambola ritrovata in mare; al «pesce, bloccato nel puntapiedi» che «boccheggia, si dibatte. Si contorce. È qualcosa di primitivo, di rapido, un rituale sul fondo basso del kayak».
La baia, un ricordo condiviso
Una linea nella baia lo riporta a suo padre, è venuto qui per disperdere le sue ceneri, perché quella baia è un luogo magico che conoscevano entrambi, un luogo reale e intimo; tempo prima suo padre gli aveva confessato che «erano gli unici a sapere della baia, ed era bello crederci». Il rapporto con il padre si trasforma in una denuncia della mancanza di risposte da se stesso. All’aperto «aveva provato una sensazione di pace. Non si sentiva solo vicino alla baia, ma anche a sé stesso», ammette il protagonista. Ma alla quiete si affianca anche un elemento di morte: sente la voce di suo padre ma le sue ceneri «sono sterili»; «le ceneri non avevano idea di cosa fossero» ed è lui a «trasformarle nell’elemento fisico di suo padre», a cercare nel loro calore una sorta di dialogo. Si guarda attorno, cercando di capire, ma non sa dove si trova. Il corpus disincantato di questo componimento, lungo poco meno di cento pagine, lascia intuire al lettore quel senso di claustrofobia e accerchiamento che il protagonista avverte di fronte a un vasto orizzonte.
La deriva e l’indagine di sé
Questo viaggio, del tutto accidentale, mette in contatto l’uomo con la parte più recondita di se stesso, inaccessibile. «Recondita armonia di bellezze diverse», scriveva Puccini nella Tosca e l’uomo sul kayak con un braccio inerte ricoperto di cenere e un dito dolorante, con un’unghia mangiucchiata dai pesci, ascolta il frastuono provenire dalla natura. La vita che arriva dalla spiaggia, la presenza vitale di un mondo che con crudeltà non si accorge della sua deriva personale e dalla riva, è un mondo che mostra il proprio corso protetto dalla misurazione del tempo: «“Tempo” sembra una parola troppo specifica per lui. Pensa agli istanti, ai mentre, cose meno misurabili»; al termine vita che si manifesta in un’epifania di ricordi: «Nelle ultime settimane aveva dovuto passare in rassegna così tante cose, così tanti oggetti che provocavano piccole esplosioni di ricordi». Il dolore è il più forte «detonatore» attraverso il quale sente filtrare il ricordo di una donna di cui non sa nulla.
«L’idea di quella donna, chiunque fosse, sembrava crescere fino a trasformarsi in un punto all’orizzonte verso cui dirigersi. Era convinto che, man mano che si avvicinava, avrebbe capito di più. […] Ha la curiosa sensazione di poter allungare la mano e posarla sulla pancia di lei». È «un’eco di qualcosa che aveva già visto».
Il talismano e l’inventario di un corpo a metà
La sua coscienza è una corda spezzata che la mente sta cercando di rimettere insieme; percepisce se stesso come «una mosca intrappolata dalla parte sbagliata del vetro». Il suo corpo è l’unico oggetto tangibile del suo passato, è quel ponte, con un nome e un indirizzo, che sono per lui come guardare «in una tazza vuota». Prova orrore per il proprio corpo, del quale cerca di riappropriarsi stilando un inventario come a dare conferma a se stesso di esistere ancora cosciente, che scomparendo diventerebbe «un mito», esisterebbe «solo come assenza». La piuma di uno scricciolo, che ritrova in un telefono, ormai fuori uso, sarà il suo personale talismano, da proteggere affinché protegga a sua volta (i Celti credevano che proteggesse dai fulmini e si diceva che potesse salvare dai naufragi).
Una scrittura che attinge altrove
In La baia Cynan Jones ricorda antichi racconti di mare, influiscono in lui autori come Hemingway, Marquez, le figure di Robinson Crusoe o Foe di Coetzee, ma anche quelle leggendarie di Moby Dick e la Vita di Pi, come sottolinea l’autore nell’intervista con John Lavin apparsa sul Wales Arts Review, la sua scrittura minimale, essenziale, radicata nel suo ventre ha per protagonista un viaggio esistenziale e una natura per niente materna, ma matrigna, che esercita tutto il suo potere esplosivo, conducendo l’uomo dentro di sé, attraverso un mondo in cui le regole sono dettate dal moto perpetuo dell’acqua e dalla fantasia. Acqua da cui tutto ha inizio, una sacca amniotica che genera vita e da cui tutto riparte.
Paola Zoppi