Gli incubi di Ari Aster e la nuova via dell’horror

I primi quindici minuti di Hereditary – Le radici del male consistono in uno degli inizi più folgoranti e promettenti che si siano visti lo scorso anno, se non addirittura di tutto il cinema horror. E si potrebbe affermare la stessa cosa anche in senso lato, giacché Hereditary rappresenta l’esordio alla regia dell’americano Ari Aster. Chiunque abbia visto il film non può averlo dimenticato: Aster – che è anche sceneggiatore – prende uno dei protagonisti e lo fa morire in modo del tutto inaspettato e brutale. Di incipit in cui un personaggio ci lascia le penne il genere horror è pieno, ma perlopiù si tratta di omicidi che danno il motore alla storia, non che concludono il primo atto. E il fatto che muoia il personaggio di riferimento per lo spettatore è decisamente destabilizzante.

Milly Shapiro, una dei protagonisti di Hereditary – Le radici del male

UN ESORDIO IMPRESSIONANTE

Il cinema di Ari Aster è così, sorprendente e anticonvenzionale, e possiamo dirlo al netto delle due uniche opere da lui firmate finora. La seconda, Midsommar – Il villaggio dei dannati (l’inutile e fuorviante sottotitolo è tutto italiano) arriva da poco nelle nostre sale. Jordan Peele, regista di Noi e Scappa – Get Out, lo ha già consacrato come un innovatore dell’horror, prefigurando una frattura nel cinema, una sorta di prima e dopo Aster. Se stabilire con esattezza quale sia il suo lascito sia prematuro, possiamo invece asserire con convinzione che in un solo biennio, e con due soli film, Aster ha già dispiegato una cospicua e intrigante poetica.

Hereditary: l’orrore si fa genetico

Hereditary ci porta tra le stanze di una villa immersa nei boschi dello Utah, dove si è appena consumata la dipartita della nonna materna. Ma la morte è soltanto il principio, per i Graham: un’altra tragedia riaccende incomprensioni, liti e disturbi mai risolti, mettendo Annie, suo marito e i loro figli in grave pericolo. Aster ci propone un amalgama di satanismo e invocazioni ai morti, sotto forma di un dramma di una famiglia tormentata dal dolore della perdita. O meglio, il dramma di una famiglia e dei suoi lutti raccontato in chiave orrifica. Le due parti si commisurano, sicché per lungo tempo non accade nulla di sovrannaturale. Quando accade, Aster ci depista, facendoci sospettare che in realtà abbia a che fare col sonnambulismo di Annie o con la tara delle malattie psichiatriche.

Toni Collette in Hereditary

Midsommar, paura a ciel sereno

Midsommar elegge invece a scenario degli eventi la Svezia e la sua provincia dell’Hälsingland dove il sole non tramonta (e già qui ci troviamo in un territorio inesplorato: quanti horror girati interamente alla luce del giorno avete visto?). Ci arriviamo direttamente in aereo, quando Dani, studentessa universitaria, si unisce al fidanzato Christian e ai suoi amici in un viaggio per visitare un’insolita comune locale, e celebrare insieme ai suoi abitanti la festa di mezza estate. I membri del villaggio praticano una vita congregale – dormono insieme, mangiano insieme – e osservano dottrine esoteriche e culti naturalistici. Insieme condividono pure l’impensabile e il solitamente incondivisibile, come la procreazione e la morte, l’estasi e la tribolazione, in modi che coinvolgono la percezione e l’espressione fisica del corpo.

Florence Pugh in una scena di Midsommar – Il villaggio dei dannati

La sottile linea tra i due film

Le linee di congiunzione tra i due film sono evidenti: lì un’artista specializzata nella riproduzione di miniature, con cui sovente si confonde la vita reale, per cui talvolta sembra che i protagonisti di Hereditary siano i personaggi di una sua creazione; qui, invece, Dani e gli altri diventano piccolissimi per effetto dello sterminato paesaggio che si apre a perdita d’occhio. Lì una setta misteriosa che agisce nell’ombra, qui una comunità che si palesa fin da subito nella sua unione settaria.

Soprattutto, però, il filo conduttore tra le due storie è l’elaborazione del lutto in seno alla famiglia. Solo che in Midsommar si fa ancora più estremo, e parte dalla disgregazione di un intero nucleo familiare per arrivare alla potenziale formazione di un altro: Dani e Christian hanno una relazione che ne fa, ovviamente, una coppia. Solo che lei vorrebbe, invano, ricavarne consolazione e sicurezza, mentre lui non riesce a trovare le parole e il momento per lasciarla. Costante è anche la discrezione con cui Aster osserva i due momenti di massima sofferenza delle protagoniste: in entrambi i casi – quando Annie è riversa sul pavimento della camera da letto e Dani è tra le braccia del ragazzo sul divano – il suo sguardo resta lontano, ma non distaccato. Si posiziona sul ciglio della porta, come qualcuno che voglia partecipare del dolore altrui senza invadere i limiti che impone il buon senso.

Midsommar – Il villaggio dei dannati

La poetica di Ari Aster

È tutto il modo di guardare le cose proprio di Ari Aster che giunge nuovo, fresco, moderno, nel panorama attuale dell’horror. Sono le lunghe, estenuanti carrellate che ti fanno chiedere cosa rivelerà alla fine la telecamera. È il rifiuto degli jumpscare. È la rapida esibizione dei corpi tumefatti nel momento in cui non te l’aspetti. E completamente rielaborato è anche tutto il codice religioso pagano esibito dalla comunità svedese.

Aster prende materiale già caro all’horror – possessioni, sacrifici, incubi – e lo riplasma all’insegna dell’inquietudine contemporanea, dei problemi di coppia e degli attriti generazionali. Come se ci fosse bisogno di parlare d’altro per parlare veramente di noi, adesso. Di tutto quel tipo di horror odierno da botteghino, fatto di solite storie di esorcismi, di bambole indemoniate e tavole ouija che si sa fin dall’inizio come vanno a finire, nel cinema di Aster non resta niente. E difatti i suoi film non sono pensati per strizzare l’occhio allo spettatore occasionale dell’horror né a quello più giovane attratto dal facile spavento. Quello di Ari Aster è un cinema autoriale, sperimentale, di ricerca, ma che alla fine ripaga del tempo impiegato nella visione. Lo è fin dai suoi primi cortometraggi: andate a cercarli, The Strange Thing About the Johnsons e Munchausen sono disponibili in rete, e avrete un assaggio di quello che potrebbe essere il nuovo e più valido indirizzo dell’horror odierno.

Andrea Vitale

Andrea Vitale nasce a Napoli nel 1990. Frequenta il liceo classico A. Genovesi, e nel 2016 si laurea in Filologia moderna alla Federico II. Ama la musica e la nobile arte dei telefilm, ma il cinema è la sua vera passione. Qualunque cosa verrà in futuro, spera ci sia un film di mezzo. Magari, in giro per il mondo. Attualmente frequenta un Master in Cinema e Televisione.

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