Il mito dell’editor e la periodica morte della letteratura

L’idea che il passato sia sempre meglio, sia sempre più alto e profondo, ci accompagna sempre, di epoca in epoca. Questo non significa che sia falso, di tanto in tanto. È un po’ la faccenda del “Al lupo! Al lupo”: prima o poi, il lupo viene davvero, solo che nessuno ci crede.

Le dichiarazioni rilasciate da Ginevra Bompiani in un’intervista sul Corriere sembrano le classiche grida del pastorello della storia. Perché quante volte abbiamo sentito editori, scrittori, critici, lettori, dire che “la letteratura è morta”? Innumerevoli. E per ognuna di queste affermazioni ci basta di solito ricordare ciò che la prospettiva storica ci insegna: l’idea che ciò che è passato sia meglio inquadrabile in un contesto rispetto a ciò che ci è contemporaneo.

Rapportare il passato al presente in maniera diretta, senza tener conto di come il mondo sia cambiato nel frattempo, significa non essere in grado di recepire la complessità di un sistema che interagisce in se stesso in maniera costante e caotica.

Ma la storia del pastorello e del lupo ci insegna – oltre al più evidente dei messaggi – che è bene analizzare volta per volta le dichiarazioni, perché magari è vero che il lupo sta arrivando.

Ginevra Bompiani

Ginevra Bompiani scrive: «La sensazione è che si scrivano libri nella convinzione che, tanto, poi, ci pensa l’editor a metterli a posto». Ma non è l’unica ad affrontare l’argomento. In un secondo articolo, in cui viene data voce a diversi operatori del settore, leggiamo: «in chi si avvicina per la prima volta alla scrittura, c’è una iperfiducia nei confronti dell’editing. La figura dell’editor è stata mitizzata.» A parlare è Carlo Carabba, responsabile editoriale di Harper Collins.

Ancora, scrive Federica Manzon, scrittrice e editor: «Oggi, per la fretta dei tempi editoriali, con un mercato sempre più agonistico, c’è chi dice “non importa se il libro non è perfetto, tanto poi lo aggiusta l’editor”».

Ho recuperato queste risposte (tutte prese dai due articoli del Corriere, che sono linkati in calce a questo) perché tutte insieme, così piazzate, danno un quadro generale di un’idea. E l’idea è che prima l’editor era una figura presente ma nascosta, e ora che gli scrittori sanno della sua esistenza gli si affidano ciecamente un po’ per culto della professionalità, un po’ perché il mondo editoriale funziona così: bisogna farselo sistemare, il libro, perché c’è poco tempo e perché non c’è poi altra scelta.

Nella mia esperienza, però – certamente inferiore e differente alle persone citate – le cose non vanno affatto così. E la differenza di punti di vista è forse dovuta al fatto che io non lavoro con la grande editoria, ma con la piccola e soprattutto con gli autori. Quasi tutto il mio portfolio di libri editati mi è stato commissionato da scrittori e non da editori. E questo cambia un po’ la situazione. Perché mai, nemmeno una volta, mi è capitato di incontrare un autore che mitizzasse la figura dell’editor, che fosse d’accordo a prescindere con gli interventi sul testo, che non vedesse l’ora che gli sistemassi il suo libro, considerandolo solo una bozza che l’editor avrebbe perfezionato.

Al contrario, la norma è trovare autori iper-protettivi rispetto ai propri testi e alla propria scrittura. Ed è certamente un bene che uno scrittore voglia mantenere la propria impronta sul testo. È suo. Ma parliamo di autori che non vogliono togliere quella virgola fra soggetto e predicato perché “la punteggiatura espressiva la usano come vogliono”, che sono capaci di rifiutare qualsiasi intervento perché il loro scopo, nel contattare un editor, era sentirsi dire che il libro era perfetto così. Poi ci sono autori che potremmo definire “normali”, che sono aperti ai suggerimenti, ma li ponderano al meglio. Questo è chiaramente l’atteggiamento migliore.

Allora, se vogliamo parlare dell’editing, non bisogna prendere solo l’autore alle prime armi che arriva alla grande casa editrice, perché magari questo scrittore sa che un’occasione del genere non è così frequente, e allora che glielo riscrivano pure, purché si pubblichi con il grande marchio. È una sorta di compromesso, con il quale possiamo essere d’accordo o meno (e io, per inciso, non lo sono). Vale con i grandi editori, con gli agenti influenti e talvolta anche con l’editoria di media grandezza.

Ma se si vuole fare un discorso completo, si deve guardare anche all’editing fatto ad autori che scelgono di affidarsi a un professionista per migliorare il proprio testo e se stessi come scrittori. Perché è questo ciò che l’editor fa: aiuta l’autore a vedere i difetti del proprio testo, errori che magari lo scrittore non sapeva nemmeno di commettere, e così facendo accresce la sua competenza. Molti di quegli errori non li commetterà più. E questo vale, almeno, anche per gli editing dei piccoli editori di qualità.

Poi è chiaro: ci sono scuole di pensiero molto diverse. Ci sono scuole che promuovono la famigerata “standardizzazione dello stile”, inutile negarlo e nascondere la testa sotto la sabbia. È una pratica che – personalmente – trovo disdicevole, perché l’editor deve mettersi al servizio dello stile autoriale, enfatizzarne i pregi e lavorare sui difetti, non l’autore a servizio di un fantomatico stile sovra-personale. Ma sono scuole, ci sono, si possono evitare. Come ci sono professori che lavorano bene e altri che lavorano male. A causa dei secondi, non si può certo fare una critica all’intera categoria.

In chiusura: il concetto che mi preme sottolineare è che esistono molte e diverse tipologie di editing, e queste dipendono soprattutto dal luogo in cui il lavoro avviene. La grande editoria, la piccola, l’editore generalista, quello da pochi libri perfetti, l’editing commissionato da un editore e quello che è un autore a chiedere. A me pare, entro i limiti della mia esperienza, che queste modalità siano molto diverse le une dalle altre, e che capiti – ne ho avuto conferma parlandone a quattr’occhi con un editor di un editore medio-grande – che spesso una non sia consapevole delle altre. È chiaro che io, da editor che lavora soprattutto con autori e case editrici medio-piccole, sia molto più consapevole del tipo di editing che si fa in queste fasce, rispetto a quello che può trovare spazio in un colosso come Mondazzoli. Ma allo stesso tempo, chi è lì a volte nemmeno sa che gli autori si affidano agli editor freelance per imparare, migliorarsi, crescere.

Allora magari da determinati punti di vista – limitati per loro natura – può sembrare che le cose siano andate alla malora. Ma scendendo a valle, dove gli scrittori alle prime armi bazzicano davvero, la situazione è diversa. E non mi sembra più tanto difficile dire che è solo l’ennesimo – e non sarà l’ultimo – grido di “Al lupo! Al lupo!”.

Maurizio Vicedomini

Articoli del Corriere:
Ginevra Bompiani: Oggi i libri muoiono di editing
Il dilemma degli editor

Maurizio Vicedomini è capoeditor per la Marotta&Cafiero editori. Ha acquistato diritti di pubblicazione in tutto il mondo ed è pioniere nello sviluppo di nuove forme di impaginazione libraria in Italia. Ha fondato la rivista culturale Grado Zero, sulle cui pagine sono apparsi racconti di grandi autori italiani e internazionali. È autore di libri di narrativa e critica letteraria. Collabora con la Scugnizzeria, la prima libreria di Scampia.

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