Nel romanzo La donna che vedi (Fernandel) di Giovanni Pannacci, il lettore assiste allo svolgimento del medesimo tema su piani multipli. Il tema è la trasformazione, mentre gli scenari in cui essa si manifesta spaziano dall’interiorità della persona all’habitat in cui prendono forma le relazioni sociali. Micro e macrocosmo dell’essenza umana si specchiano in un gioco di rimandi là dove il dolore e l’incomprensione personale vengono riflessi nel groviglio decadente di un quartiere periferico destinato a soccombere sotto il peso dell’emarginazione.
Quando il destino sembra segnato, ecco che spunta – quasi alla stregua di un deus ex machina – una figura carismatica, un pigmalione in grado di plasmare e trasformare oggetti e persone secondo un’etica del tutto personale ma onesta, sperimentando e trasformando non solo il presente ma anche il passato e il futuro di coloro che gli stanno a cuore. La trasformazione, addirittura, si estende ai traumi e ai ricordi, che vengono piegati al volere quasi demiurgico di questo personaggio filantropico e bizzarro, tanto determinato da riuscire a manipolare l’inconscio grazie a una droga sintetizzata in un laboratorio segreto e ribattezzata con il nome di una dea buddista. E un simile laboratorio, ancora più segreto, si propone poi a livello interpersonale (quando si prevedono e suggeriscono interazioni tra individui) se non perfino sociale (quando si guida alla rinascita di una comunità avviata alla disgregazione).
Il sesso, la droga, l’amore e l’architettura sono gli elementi ricorrenti nel romanzo, oltre a diventare gli ingredienti segreti per mettere in atto le trasformazioni più profonde. Come i palazzi vengono demoliti per lasciare il posto dove ricostruire qualcosa di meglio, così le ossessioni vengono innalzate e coltivate perché diventino testimonianza del bello, per essere tramutate in opere d’arte.
La strada verso la felicità è essa stessa una via verso la trasformazione, ma si tratta di una via percorribile soltanto se si attraversa il dolore che la impedisce a monte. In questa posizione si avverte subito una saggezza dal sapore buddista, un miscuglio forse fin troppo facile di ammirazione Zen mischiata a una dose di anticlericalismo un po’ scontato.
Il romanzo ha uno stile lineare e assume a tratti i gradevoli contorni del noir. Il paesaggio grigio, le ambientazioni invernali e le numerose scene che si svolgono in spazi chiusi e artificiali accrescono questa sensazione di mistero.
I personaggi si muovono spesso nell’ambiguità o, per parafrasare un passo del romanzo, si rivelano come creature sospese tra due mondi, tra due elementi, tra due stati dell’essere, e non sempre sanno decidersi su quale sia il migliore. Come una salamandra, un rospo, o qualsiasi altro anfibio, capita che si sentano attratti da due identità; in questo somigliano perfino all’airone cinerino, che si lascia vedere spesso in prossimità dell’acqua, ma gli basta un grido straziante e un battito d’ali per tornare nell’aria, suo elemento naturale, anche se da lì desidererà nuovamente polle e rigagnoli da cui pescare le prede.
Giuseppe Raudino
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