Green Book: un delicato road movie nell’America della segregazione

É l’inizio degli anni Sessanta e negli Stati Uniti da quasi trent’anni circola una guida per viaggiatori nota comunemente come Green Book – dal nome del suo ideatore, Victor Hugo Green – le cui pagine dedicate a tutti gli Stati americani forniscono informazioni su alberghi e ristoranti per vacanze «senza seccature» e la cui peculiarità è quella di essere una guida «for negro motorist», riservata esclusivamente a viaggiatori negri. Ed è proprio a questa guida che fa riferimento l’omonimo film di Peter Ferrelly che ha conquistato il plauso della critica al Festival del Cinema di Roma 2018 e ha ottenuto ben cinque nomination agli Academy, aggiudicandosi l’Oscar per il Miglior film, insieme a quello per la Migliore sceneggiatura originale e per il Migliore attore non protagonista.

Una storia vera

Precisamente è il 1962 e negli Stati Uniti d’America vigono ancora le Leggi Jim Crow che dal 1876 di fatto tengono in piedi un regime di segregazione razziale nel paese. È in questo anno che il destino del buttafuori italo-americano Frank Anthony Vallelonga (Viggo Mortensen), detto Tony Lip per la sua capacità oratoria, si incrocia con quello del noto pianista e compositore afroamericano Dr. Donald Shirley (Mahershala Ali), generando tra loro un legame destinato a durare per sempre, sino alla morte avvenuta a distanza di pochi mesi tra i due nel 2013.

Il film racconta, infatti, di quando Vallelonga, trovatosi senza un’occupazione in seguito alla chiusura del Copacabana – famoso locale di New York in cui lavorava – accetta di diventare lo chaffeur di Shirley e di accompagnarlo in un tour nel Sud degli Stati Uniti, dove nonostante le accoglienze trionfali ai suoi concerti, è costretto ad affrontare le vessazioni e le discriminazioni che la gente di quei luoghi riserva ancora alla popolazione di colore.

Durante il viaggio Tony Lip sarà obbligato a consultare la guida – il Green Book per l’appunto – fornitagli all’inizio dell’incarico per scortare l’insolito datore di lavoro in quell’America ipocrita e ostile dove bianchi e neri non possono mangiare allo stesso tavolo, usare lo stesso bagno o bere un bicchiere nello stesso bar e che sembra aver smarrito il senso dell’umana dignità.

Un viaggio dell’anima

Don e Tony arriveranno a influenzarsi l’uno con l’altro e a rivalutarsi reciprocamente, nonostante appaiano fin dall’inizio due personalità del tutto incompatibili tra loro: uno italo-americano del Bronx, rozzo e ignorante, che conosce soltanto la violenza come arma di risoluzione di ogni disputa, l’altro afroamericano colto e sensibile, sofisticato conoscitore del bon ton.

 

Perché mentre fuori dal finestrino il paesaggio muta lentamente, l’auto diventa lo spazio di un’intima condivisione, di un riconoscimento reciproco che gradualmente germoglia sconfiggendo le iniziali diffidenze. Dopotutto Tony – che in una delle sequenze iniziali getta nella pattumiera i bicchieri dove avevano bevuto due uomini di colore che avevano svolto lavori in casa sua – manifesta in un primo momento un atteggiamento razzista nei confronti degli afroamericani, ma in una modalità ingenuamente stereotipata di cui in realtà è egli stesso vittima a causa delle origini italiane che lo rendono facilmente etichettabile come mafioso.

D’altro canto Don, emarginato dalla sua stessa comunità a causa della sua formazione classica che lo porta a rifiutare di suonare il soul e il rhytm & blues come i suoi colleghi e a guardare gli altri negri dall’alto della sua posizione di privilegiato, affacciato alle lussuose finestre del suo appartamento sopra alla Carnagie Hall dove sorseggia whisky di marca, vive una condizione di perenne conflitto interiore  e di smarrimento esistenziale (“Se non sono mai abbastanza nero, né abbastanza bianco, né abbastanza uomo, allora dimmelo tu cosa sono, Tony!”).

Una commedia commovente

Vincitrice del Golden Globe 2019 nella categoria Miglior film commedia o musicale, Green Book non è la classica commedia stucchevole che tratta un tema complesso come quello del razzismo in maniera banale. Il regista Peter Ferrelly, che in passato ha portato sul grande schermo insieme al fratello Bobby pellicole irriverenti e dissacranti come Tutti pazzi per Mary o Io, me & Irene e Lo spaccacuori, si è cimentato in un’opera di una leggerezza contagiosa, mai superficiale, capace di strappare spesso una risata e qualche volta di far scendere anche una lacrima.

La sinergia evidente tra Viggo Mortensen – ingrassato venti chili per la parte e a dispetto delle radici danesi, perfetto italo-americano – e Mahershala Ali – straordinariamente a suo agio nei panni del damerino snob, ben lontano dal machismo gangster dello spacciatore Juan che gli valse l’Oscar in Moonlight – esplode sullo schermo in tutta la sua potenza, dando vita ad una storia di formazione in cui i personaggi alla fine ne escono profondamente mutati.

Nonostante la morale finale risulti fin troppo edulcorata, questa bellissima storia di amicizia dimostra come il pregiudizio, seppure radicato nelle nostre menti e nelle nostre abitudini, può essere scardinato e superato attraverso la conoscenza reciproca, la prossimità fisica, ma soprattutto grazie ad un’audacia dello spirito, perché come ricorda Oleg, musicista del Don Shirley Trio, a Tony “per cambiare i cuori delle persone ci vuole coraggio”.

Valerio Ferrara

Valerio Ferrara nasce a Napoli nel 1990. Dopo aver conseguito il diploma classico, frequenta la facoltà di Economia, maturando in seguito la decisione di abbandonare questo percorso e intraprendere gli studi umanistici presso il dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli studi di Napoli Federico II, dove consegue la laurea in Sociologia, presentando una tesi in Sociologia dei processi culturali e comunicativi. La sua più grande passione è il cinema, con una spiccata predilezione per quello d’autore. Amante della musica sin dall’infanzia, è stato membro dei Black on Maroon, una band alternative rock partenopea. Dal 2016 è redattore della rivista Grado Zero.

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