Racconto: Più forte – Carmine Ferraro
Sabrina, dall’altro capo del divano, con la testa penzoloni dietro la spalliera, mi chiede di continuare. Più forte!, dice e ha il tono di un rimprovero. Sembra che intenda: più forte, idiota!
Il suo appartamento è sopra il laboratorio di una pasticceria. È come se dal pavimento evaporasse un sapore di dolci.
Di solito non le noto nemmeno certe cose. Come non noterei la bottiglia di vino lasciata aperta sopra la penisola della cucina. E il bicchiere sporco a fargli compagnia.
Ah, eccome se mi fanno male gli addominali, ma quando una donna del genere intima di continuare, un uomo non può che obbedirle.
Dalla pancia si diffonde un bruciore terribile che avevo dimenticato nei pigri, facili, comodi orgasmi coniugali.
Più forte, ripete Sabrina. Idiota, aggiungo io tra me e me. Perché, anche se non lo dice, ha ragione, sono un idiota.
A letto non si guarda più la TV. Laura, la mia piccolina, due settimane fa, mentre rincasava da scuola e già estraeva dallo zaino diario e pastelli, ha portato una nuova regola per l’intera famiglia: ogni sera, per un mese intero, prima di andare a dormire, va letta una bella storia. Niente cellulare, niente tablet, niente computer, niente di niente. Solo una storia di carta.
E adesso mia moglie se ne sta in silenzio, rintanata sotto le coperte, con il dorso aperto di un libro che le copre il viso.
E io ci provo a ricordarlo, il suo viso, ma è un ricordo imperfetto.
Sua non è la punta del naso… o, forse, sono i colori distesi intorno alla pupilla che non mi convincono.
Sabrina per strada ha un’aria così docile e pacata che è facile dimenticarsela. Ma quando siamo soli la storia cambia. Diventa un’altra.
Si è seduta e ha allargato le gambe, lentamente, come se mi stesse sussurrando un segreto. Morbido e dal sapore di crema.
Con un cenno mi ha fatto inginocchiare. Ed era un’investitura o era una preghiera, proprio non lo so, ma lì davanti mi sentivo devoto e servile.
Sabrina me l’ha sbattuta in faccia solo quando l’ha ritenuto opportuno. Prendendomi per i capelli, si è lasciata andare sulle mie labbra…
… dove passano troppe donne.
Mi cambio in disparte, in un angolo, lontano dalla luce dell’abat-jour che illumina mia moglie e il suo libro. Per terra c’è il paio di calzini che ho lasciato ieri notte vicino alle scarpe. Entro nel letto caldo e, come se fossi sott’acqua, chiudo gli occhi. Lì, dietro le palpebre, lei mi parla: sei stanco? Annuisco.
E lo fa: mi bacia. Ha le labbra spaccate dal vento e che sanno di burro di cacao.
Non ha ancora capito niente. Come me. Che so tutto, è vero. Ma non ho capito niente.
Laura entra saltellando. È una bambina in gamba e non aspetta che i suoi genitori vadano a dargli la buonanotte, entra e se la prende da sola.
Buonanotte mà. E la bacia.
Buonanotte pà. E mi bacia.
In momenti come questi è un dramma, un dramma provare vergogna.
Più forte, insiste.
Più di questo mi smonto, penso e artiglio le dita nei suoi fianchi per darmi la carica.
Pare che tutto sia destinato alla difficoltà. Che tutto si arrenda alla pesantezza. Le relazioni ingrassano e diventano pesanti. Più forte, riprende Sabrina e mette a tacere le cazzate che mi passano per la testa.
Sì, le rispondo e scopro subito di avere il fiato corto, che quel colpo d’aria di troppo, sì, mi ha sballato il ritmo, mi ha rallentato, mi ha tolto incisività e velocità. Non dovevo dire sì. Il mio corpo non l’ha retto.
Se ne sta in silenzio, lei. Immobile come le bambole nelle case di plastica.
Anch’io sono fermo. La sua schiena bianca e inarcata raccoglie il mio sguardo.
Nelle mani stringo ancora il corpo di Sabrina, ma non so più che farmene.
Singhiozza mentre sono ancora dentro di lei. Piange un mistero che non mi è dato intuire nemmeno lontanamente.
Cerco di stringerla, ma si porta le braccia al corpo cadendo di peso sul divano. Strizza gli occhi e butta la testa all’indietro.
Quando chiude la luce per andare a dormire, riemergo da sott’acqua, apro gli occhi e cerco mia moglie sul cuscino. So dov’è il suo viso, eccolo, anche se dalla finestra non entra che la notte. Le do la mano sotto le coperte, come quando eravamo fidanzati e certe tenerezze erano così naturali. Lei gioca per un po’ con le dita, poi rinuncia.
Di che parla il libro?, le chiedo, sperando che la sua voce possa aiutarmi a ricordarne il viso.
Quale libro?, risponde.
Ormai i miei letti sono così uguali.
Ci ripenso come se prima di allora il mio tempo fosse appartenuto a un altro uomo.
Circa un anno fa, andai a prendere per la prima volta mia figlia a scuola. Usciva dal portone del prefabbricato e per le scale si divertiva a far saltellare lo zaino enorme sulle spalle. Rideva, avendo appena intuito cosa fosse la libertà. E io ridevo con lei, felice, come quando da bambino dovevo aver fatto la stessa scoperta.
Laura camminava di fianco ad una donna mite, capelli raccolti in boccoli ramati, occhi tagliati sottili sopra gli zigomi e una borsa troppo grande, pensai, per quello che doveva essere il suo lavoro.
A domani, mamma. Aveva detto Laura prima di farsi rossa rossa e sparire nel colletto bianco del grembiule. Una piccola tartaruga nel suo guscio.
A domani, maestra! S’era corretta, ma il broncio le indugiava sul viso. Le bambine lo fanno, spesso si confondono, ma non c’è nulla di male. Le passai una mano tra i capelli e la strinsi a me.
Piacere, mi disse la donna mite e mi raccontò di sé.
Carmine Ferraro