Lo scrittore fuorilegge: Tom Robbins e la vita immaginifica
Tibetan peach pie. Cronache di una vita immaginifica, Edizioni Tlön, raccolta di storie verosimilmente vissute da Tom Robbins, è un buon pretesto per rileggere con occhi nuovi i suoi precedenti romanzi e gettare lo sguardo su quel percorso fuori binario che conduce a uno degli ultimi fuorilegge della letteratura.
«Tutti sogniamo profusamente, eppure al mattino abbiamo dimenticato il novanta per cento di ciò che è successo. Ecco perché i poeti sono tanto importanti nella società. I poeti ricordano i sogni per noi.»
«Sei un poeta?»
«Sono un fuorilegge.»
«I fuorilegge sono membri importanti della società?»
«I fuorilegge non appartengono alla società. Però possono essere importanti per la società. I poeti ci ricordano i sogni, i fuorilegge li mettono in atto.»[Natura morta con Picchio, Tom Robbins, Baldini Castoldi Dalai, p. 97]
Prepararsi allo scontro
Non è semplice affrontare le pagine di Robbins: gli aneddoti sono affascinanti, sono draghi ricoperti da scaglie di cioccolato, ma è bene prepararsi un minimo prima di esporsi alle storie. Robbins è un testardo che usa le parole per abbaiare alla luna, sanguina metafore, e a leggerlo con la guardia abbassata si rischia il k.o. al primo round.
«Il primo dovere di uno scrittore non è verso la bestia dai mille ventri, bensì verso la bestia dalle mille lingue: non verso la Società, bensì verso la Lingua. Tutti deteniamo una quota nella confraternita della Società, ma la Lingua è l’obbligazione precipua dello scrittore. Ed è anche un grandioso animale. Non fosse per la Lingua, la Società non esisterebbe.»
[Le anatre selvatiche volano al contrario, Tom Robbins, Baldini Castoldi Dalai, p.263]
Di Robbins colpisce la capacità di creare personaggi multistrato, che dipingono da prospettive inedite ciò che crediamo di riconoscere ma che invece ci rendiamo conto di non riuscire a vedere. Ed è sorprendente ritrovarsi a simpatizzare per un ex-agente della CIA che elabora teorie sulla Vergine Maria, mentre si autocostringe sulla sedia a rotelle perché se toccasse direttamente il suolo subirebbe l’effetto di una misteriosa maledizione. O tifare per uno scienziato ladro di babbuini, testimone del ritrovamento della salma di Gesù Cristo e del lancio di questa verso il Sole.
Mi sento di consigliarvi, durante la lettura, di tenere a portata dei cerotti per le nostre comuni convinzioni: gli aneddoti in Tibetan Peach Pie provocano vertigini, sono zeppi di parole che aspettano solo di farti lo sgambetto o ti spingono appena ti sporgi a guardare l’abisso. Come nei suoi migliori romanzi, Robbins obbliga a salire sul ring della letteratura, profuma le parole fino a stordirti – dov’è il confine tra ChiScrive e ChiLegge? Ma poi, è mai esistito? – e, da scrittore infido qual è, lascia che la pagina ti risucchi.
Frasi in divenire
Un capitolo via l’altro, ci si ritrova in un vortice accennato dalla sua scrittura ma di fatto creato da ChiLegge: Robbins si limita a dare il la alla ballata del caos, lasciando al lettore il gusto di inventare i passi. Veniamo trasportati in vicende a prima vista assurde – qui c’è l’amoreggiare di una principessa con un dinamitardo all’interno di un pacchetto di Camel, lì ci sono personaggi impegnati a spremere barbabietole per cavarci il profumo della vita eterna, dietro di noi sentiamo il trrrr di una scatola vuota di piselli decisa a raggiungere Gerusalemme… – e solo una volta chiuso il libro ci accorgiamo di aver letto storie politiche.
Leggerlo è entrare in un mondo-in-divenire; le sue frasi sono palmipedoni che indicano nuovi sentieri, storcono i nostri punti esclamativi fino a trasformarli in interrogativi.
Inebriato dal potere delle parole, non spruzza sulle pagine ammiccamenti e riflessioni abrasive solo per il gusto di farsi araldo della controcultura, nient’affatto; sostiene che le metafore sono sensate solo quando hanno «una pertinenza contestuale.»
Il mondo è (fatto di) linguaggio
Tibetan Peach Pie è zeppo di pensieri che piegano gli angoli della bocca all’insù: vi convivono frasi che evocano un Michael Jackson impegnato a ballare sulle note dei Joy Division, insieme a frasi suicide come un bluesman che suona una armonica di pancetta in un ristorante vegano.
Fedele all’ipotesi di Terence McKenna «Penso che il mondo sia fatto di linguaggio», Robbins elabora – venendo da questi plasmato a propria volta – personaggi che ci invitano a vivere senza abbandonarci alla disperazione, ricordandoci una volta di più che «Non è mai troppo tardi per farsi un’infanzia felice.»
Luca Pegoraro